La fatica e lo splendore dell'esistenza in "Due vite" di Emanuele Trevi
Questa mia recensione del romanzo "Due vite" di Emanuele Trevi, edito da Neri Pozza, è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud
Una fotografia ritrovata per caso, dove si vedono due giovani che scelgono un disco da ascoltare. Fine anni Ottanta, quei ragazzi quasi trentenni sono gli scrittori Emanuele Trevi e Pia Pera, a scattare la foto era stato un altro romanziere, Rocco Carbone, nella sua casa romana di via del Boschetto. Dei tre oggi è rimasto su questa terra poco lieve soltanto Trevi. Di Carbone e Pera racconta le esistenze brevi e impetuose in “Due vite” (Neri Pozza), che è tra i dodici semifinalisti del Premio Strega – un libro denso, lirico e in qualche modo verista. Non c’è fatalismo né melodramma nel restituire le storie di un uomo e una donna scomparsi in modo prematuro, ma in vita entrambi ostili all’empatia confinante con indulgenze perbeniste.
Contraddittorio in realtà fu Carbone, calabrese duro e impenetrabile come l’evocazione materica del suo nome – un perenne scontento, permaloso eppure avido di vicinanza, contatto, comprensione mai soddisfatta. In epigrafe l’autore cita Cristina Campo nel riflettere quanto sia faticoso l’esercizio della felicità, fragilissima e messa a repentaglio da movimenti “oscuri e pesanti ” come, in modo differente e speculare, li sopportarono Carbone e Pera.
Rocco Carbone, nato nel 1962 e morto a 46 anni in un incidente stradale, è sempre apparso a Trevi ostinato come l’etimologia della pietra, come la terra aspromontana della natìa Cosoleto. Come quella madre severa maestra del paese e quel padre, l’ex sindaco rigoroso che in preda all’ansia calcistica spense il televisore ai figli al novantesimo della mitica semifinale Italia-Germania dei Mondiali del Settanta, poco prima del goal decisivo di Rivera.
Rocco rimase fisicamente immutato per tutta la lunga frequentazione tra i due scrittori, durata un quarto di secolo e cementata anche da un ceppo comune di radici (la famiglia materna di Trevi è originaria di San Nicola Arcella) e quei viaggi verso Sud in estate e nelle feste comandate – il reggino spezzava il tragitto fermandosi a giocare a carte e biliardo con i parenti di Emanuele. Un uomo pieno di spigoli e asprezze - fisionomiche e caratteriali - ma secondo gli antichi alchimisti “non esiste in natura nulla di piú psichico delle pietre e dei metalli”. Una personalità ostica, quello che diremmo un brutto carattere e nonostante questo, dice Trevi, «Rocco piaceva, aveva molti amici e credo che sia stato fortunato nei suoi incontri; gli altri esseri umani di solito riescono soltanto a danneggiarci. Lui invece si è sempre accompagnato a persone stupende, simili ad angeli custodi che lo hanno amato e molto aiutato».
Lui però era infelice. Stava male. In questo libro si affronta, nominandola per la prima volta con esattezza, la causa del male di Rocco Carbone. Disturbo di personalità bipolare. Braccato da quel Tremendo che lei descrive come “una specie di buco nero, capace di assorbire al suo interno ogni energia vitale, trasformandola in disperato fastidio di esistere”. Ha mai avuto sentore che, come Pavese, Carbone pensasse a togliersi la vita?
«Mai. Rocco aveva un carattere chiuso e per lui la vita era molto complicata ma era tutto tranne che un depresso. Non gli ho mai sentito parlare di suicidio, piuttosto lui era uno di quelli per i quali la vita stessa, per come la conducono, è un suicidio - lo era ad esempio il suo vizio del bere, che lo uccideva ogni giorno»
La vostra amicizia è stata caratterizzata da malumori e allontanamenti. Lei dichiara di avergli voluto bene ma non abbastanza, di essersi sentito anche in colpa quando il buio di quella personalità l’aveva spinto ad allentare il legame. Certi abbandoni sentimentali reiterati, certe recriminazioni e accuse emotive fanno pensare a Carbone come a un borderline, addirittura un narcisista. E’ così?
«Era semplicemente un uomo dal carattere difficile, non era semplice stargli accanto. Nei sentimenti siamo tutti deboli, lui lo era di più e aveva bisogno di continue attestazioni di affetto da parte degli amici, di prove che a lui si teneva davvero. Era però capace di allegria, sapeva essere piacevole e negli ultimi anni si era addolcito, credo sia stato il periodo in cui ha vissuto meglio».
Rocco rimase fisicamente immutato per tutta la lunga frequentazione tra i due scrittori, durata un quarto di secolo e cementata anche da un ceppo comune di radici (la famiglia materna di Trevi è originaria di San Nicola Arcella) e quei viaggi verso Sud in estate e nelle feste comandate – il reggino spezzava il tragitto fermandosi a giocare a carte e biliardo con i parenti di Emanuele. Un uomo pieno di spigoli e asprezze - fisionomiche e caratteriali - ma secondo gli antichi alchimisti “non esiste in natura nulla di piú psichico delle pietre e dei metalli”. Una personalità ostica, quello che diremmo un brutto carattere e nonostante questo, dice Trevi, «Rocco piaceva, aveva molti amici e credo che sia stato fortunato nei suoi incontri; gli altri esseri umani di solito riescono soltanto a danneggiarci. Lui invece si è sempre accompagnato a persone stupende, simili ad angeli custodi che lo hanno amato e molto aiutato».
Lui però era infelice. Stava male. In questo libro si affronta, nominandola per la prima volta con esattezza, la causa del male di Rocco Carbone. Disturbo di personalità bipolare. Braccato da quel Tremendo che lei descrive come “una specie di buco nero, capace di assorbire al suo interno ogni energia vitale, trasformandola in disperato fastidio di esistere”. Ha mai avuto sentore che, come Pavese, Carbone pensasse a togliersi la vita?
«Mai. Rocco aveva un carattere chiuso e per lui la vita era molto complicata ma era tutto tranne che un depresso. Non gli ho mai sentito parlare di suicidio, piuttosto lui era uno di quelli per i quali la vita stessa, per come la conducono, è un suicidio - lo era ad esempio il suo vizio del bere, che lo uccideva ogni giorno»
La vostra amicizia è stata caratterizzata da malumori e allontanamenti. Lei dichiara di avergli voluto bene ma non abbastanza, di essersi sentito anche in colpa quando il buio di quella personalità l’aveva spinto ad allentare il legame. Certi abbandoni sentimentali reiterati, certe recriminazioni e accuse emotive fanno pensare a Carbone come a un borderline, addirittura un narcisista. E’ così?
«Era semplicemente un uomo dal carattere difficile, non era semplice stargli accanto. Nei sentimenti siamo tutti deboli, lui lo era di più e aveva bisogno di continue attestazioni di affetto da parte degli amici, di prove che a lui si teneva davvero. Era però capace di allegria, sapeva essere piacevole e negli ultimi anni si era addolcito, credo sia stato il periodo in cui ha vissuto meglio».
Diversissimi Trevi, Carbone e la sensuale e fragile Pia Pera. Cosa vi accomunava?
«Ho parlato di loro perché mi sembra che rappresentino una certa idea dell’esistenza che può raccontarsi al maschile e al femminile, e mi interessava. In realtà noi tre facevamo parte di un gruppo più vasto di letterati, circa una ventina, un circolo come quello degli intellettuali dei caffè francesi. Ci accomunava l’esigenza di parlare e della presenza fisica, l’unica capace di nutrire il nostro sviluppo interiore, che ritenevamo fondamentale per scrivere. E’ un paradosso, perché la scrittura è un’arte solitaria, un’attività da svolgere nel chiuso di una stanza. Noi lavoravamo così tutto il giorno alla scrivania, ma la sera andavamo in giro, anche in modo insensato. Uscivamo a caccia di libri, musica, avventure, a caccia di altri esseri umani. Siamo stati l’ultima generazione di scrittori a vivere così».
Apprezzato dagli editori e pubblicato con discreta attenzione (dopo l’esordio con l’indipendente Theoria, fucina autoriale, cinque libri in meno di dieci anni con Feltrinelli e Mondadori), Carbone ugualmente era ipercritico, soprattutto pativa lo scarso risultato di vendite. Condivideva l’atteggiamento di frustrazione commerciale di grandi come Conrad e James e lei nel libro lo definisce “campione del risentimento cosmico”. Era un lamentoso o aveva ragione?
«La sua delusione non era infondata e io ho sempre trovato una spiegazione a questo insuccesso nella cupezza delle sue opere. Rocco stesso lo aveva capito. Inseguiva le grandi tirature ma la tristezza dei suoi personaggi era un ostacolo perché impediva l’identificazione dei lettori. I suoi romanzi non sono per tutti, ma lui non fece mai nulla per adeguarsi».
Uno di questi romanzi, “L’apparizione” è la cronaca allucinata di un’ossessione, che Carbone subì per un folle amore del tutto immaginario, che fece naufragare l’unione coniugale con Samantha Traxler. Carbone si innamorava spesso, ma quella volta cosa accadde?
«Rocco si è innamorato tante volte, anche troppe, perché non riusciva a stare solo, e le sue relazioni erano complicate come lui. Sulla passione paranoica che fu fatale per il suo matrimonio non faccio gossip, perché è tutto raccontato nei suoi libri. Quella vicenda catastrofica fu però la molla per fargli capire che aveva bisogno di aiuto. Una nostra comune amica lo trascinò letteralmente dallo psicologo, lei è stata una dei suoi salvatori, ne ebbe tanti».
Tra i rapporti importanti di Carbone ci fu l’amicizia con la scrittrice Chiara Gamberale, all’epoca moglie di Trevi. Grazie a lei, divenuta confidente sentimentale delle paturnie di Rocco, si riannodarono i fili con Emanuele. Tra loro si ristabilì una serena routine, sancita da insolite scuse del calabrese che in caso di litigi ammetteva la corresponsabilità del suo “carattere di merda”.
L’ultima telefonata fu il 17 luglio 2008, poche ore prima dell’incidente di Rocco: avrebbero dovuto cenare insieme ma lui aveva disdetto per incontrare un’altra amica scrittrice, Carola Susani. Non la raggiunse mai, smentendo l’immortalità che vantava di aver ottenuto scampando a un precedente schianto con il suo motorino. Si salutarono con parole simili a una profezia: “Hai fatto bene a chiamarmi”, aveva detto Rocco. A voler credere al destino, quella sera lo scrittore avrebbe potuto viaggiare in auto, ma gliel’avevano rubata. Nel luogo dell’impatto è stato piantato un ulivo. Chiara Gamberale in memoria dell’amico “incapace di vivere” scrisse un articolo vibrante sul Riformista: “E’ proprio quella cosa che di te pensi non vada, quella che piú funziona”.
Dopo la morte di Rocco, Trevi racconta di aver sofferto a lungo d’insonnia, tormentato da pensieri angosciosi. L’avvistamento, nel giorno dell’incidente, di un racconto di Hemingway in edicola, “La breve vita felice di Francis Macomber” e l’associazione d’idee con l’esistenza dell’amico, ma cambiando l’aggettivo – infelice. E l’inquietante sospetto che Carbone fosse stato ucciso da criminali a causa della sua intenzione di scrivere un libro sugli strani decessi per tumore a Cosoleto, con l’ipotesi di rifiuti tossici interrati nell’area aspromontana.
La pubblicazione del romanzo postumo di Carbone “Per il tuo bene” ha richiesto un suo intervento narrativo su quel manoscritto protetto come uno scudo da un vetusto sistema di password. Ed è molto diverso da tutti gli altri, meno avvolto da quella patina nebbiosa di infelicità. Lui avrebbe approvato com’è stato scritto?
«E’ stato necessario metterci mano, come l’aveva lasciato non avremmo potuto pubblicarlo. Credo di aver fatto l’unico lavoro possibile, cioè scrivere il libro che io non avrei mai scritto ed entrare nella sua scrittura, completamente diversa dalla mia. Non ho agito pensando a cosa sarebbe stato meglio fare in astratto ma a cosa avrebbe fatto lui. In questo romanzo c’è molto di lui. L’allegoria della doppia personalità è la stessa de “L’apparizione”. I personaggi sono due, ma rappresentano la stessa persona, quel suo contrasto interiore dovuto alla spinta verso un’integrazione nel mondo che in quella storia e nella sua vita fu troppo tardi per raggiungere».
Che fine ha fatto il progetto di ristampa del romanzo d’esordio, “Agosto”? Nel ventennale della morte di Carbone se n’era parlato da parte di Castelvecchi.
«Mi ha piacevolmente sorpreso che Castelvecchi abbia ripubblicato, già nel 2018, “L’assedio” e sono fiducioso. E’ per questa linfa che dobbiamo combattere come scrittori. Ristampare i libri, non farli scomparire, tenerli in vita».
Chi sono stati realmente Rocco Carbone e Pia Pera, la traduttrice che somigliava a una “signorina inglese” e si gettava in relazioni sentimentali con autentici bastardi, fino all’uomo “verme” che, notando i primi segnali della Sla, le notificò con fastidio il suo zoppicare? Un’involontaria masochista e un sadico, un’amicizia resa naturale dall’assenza di tensione sessuale, che li vedeva sfottersi (lei chiamava Rocco ed Emanuele drogati quando la costringevano a lanciarsi in ricerche notturne di sigarette) o litigare per antipatie sui rispettivi partner amorosi. In “Due vite” Emanuele Trevi sente addosso l’inadeguatezza a riesumare le tracce di un uomo e una donna che nessuno può davvero dire se siano stati infelici.
Rocco, che nei primi anni romani studiò con Eduardo De Filippo trovandolo insopportabile e si identificava nel meridionalismo pessimista del commissario Ingravallo di Gadda, finì per trasformarsi nell’ambizioso sensuale Gatsby perché in lui “la capacità di godere era pari a quella di soffrire” e soprattutto perché quel tragico sconfitto incarnava la sua aspirazione a un’ascesa sociale che lui stesso riteneva impossibile per il marchio d’inferiorità delle origini.
Pia, che aveva tentato di riscrivere Lolita con totale sessualità femminile ed era stata denunciata dal figlio di Nabokov, sublimò la malattia trovando beatitudine nella cura di un orto che era il suo “Giardino segreto”, come nell’amato romanzo di Frances Hodgson Burnett.
Entrambi, spiega Emanuele Trevi, sentivano con dolore atroce quel “difetto di fabbrica della nostra esistenza” che accomuna gli esseri umani. Un mistero svelato, forse, nel dipinto “L’origine del mondo” in quella visita al museo parigino d’Orsay, dove Carbone esprimeva ai due amici estatica ammirazione per l’essenza pura di quell’immagine.
Dopo la morte di Rocco, Trevi racconta di aver sofferto a lungo d’insonnia, tormentato da pensieri angosciosi. L’avvistamento, nel giorno dell’incidente, di un racconto di Hemingway in edicola, “La breve vita felice di Francis Macomber” e l’associazione d’idee con l’esistenza dell’amico, ma cambiando l’aggettivo – infelice. E l’inquietante sospetto che Carbone fosse stato ucciso da criminali a causa della sua intenzione di scrivere un libro sugli strani decessi per tumore a Cosoleto, con l’ipotesi di rifiuti tossici interrati nell’area aspromontana.
La pubblicazione del romanzo postumo di Carbone “Per il tuo bene” ha richiesto un suo intervento narrativo su quel manoscritto protetto come uno scudo da un vetusto sistema di password. Ed è molto diverso da tutti gli altri, meno avvolto da quella patina nebbiosa di infelicità. Lui avrebbe approvato com’è stato scritto?
«E’ stato necessario metterci mano, come l’aveva lasciato non avremmo potuto pubblicarlo. Credo di aver fatto l’unico lavoro possibile, cioè scrivere il libro che io non avrei mai scritto ed entrare nella sua scrittura, completamente diversa dalla mia. Non ho agito pensando a cosa sarebbe stato meglio fare in astratto ma a cosa avrebbe fatto lui. In questo romanzo c’è molto di lui. L’allegoria della doppia personalità è la stessa de “L’apparizione”. I personaggi sono due, ma rappresentano la stessa persona, quel suo contrasto interiore dovuto alla spinta verso un’integrazione nel mondo che in quella storia e nella sua vita fu troppo tardi per raggiungere».
Che fine ha fatto il progetto di ristampa del romanzo d’esordio, “Agosto”? Nel ventennale della morte di Carbone se n’era parlato da parte di Castelvecchi.
«Mi ha piacevolmente sorpreso che Castelvecchi abbia ripubblicato, già nel 2018, “L’assedio” e sono fiducioso. E’ per questa linfa che dobbiamo combattere come scrittori. Ristampare i libri, non farli scomparire, tenerli in vita».
Chi sono stati realmente Rocco Carbone e Pia Pera, la traduttrice che somigliava a una “signorina inglese” e si gettava in relazioni sentimentali con autentici bastardi, fino all’uomo “verme” che, notando i primi segnali della Sla, le notificò con fastidio il suo zoppicare? Un’involontaria masochista e un sadico, un’amicizia resa naturale dall’assenza di tensione sessuale, che li vedeva sfottersi (lei chiamava Rocco ed Emanuele drogati quando la costringevano a lanciarsi in ricerche notturne di sigarette) o litigare per antipatie sui rispettivi partner amorosi. In “Due vite” Emanuele Trevi sente addosso l’inadeguatezza a riesumare le tracce di un uomo e una donna che nessuno può davvero dire se siano stati infelici.
Rocco, che nei primi anni romani studiò con Eduardo De Filippo trovandolo insopportabile e si identificava nel meridionalismo pessimista del commissario Ingravallo di Gadda, finì per trasformarsi nell’ambizioso sensuale Gatsby perché in lui “la capacità di godere era pari a quella di soffrire” e soprattutto perché quel tragico sconfitto incarnava la sua aspirazione a un’ascesa sociale che lui stesso riteneva impossibile per il marchio d’inferiorità delle origini.
Pia, che aveva tentato di riscrivere Lolita con totale sessualità femminile ed era stata denunciata dal figlio di Nabokov, sublimò la malattia trovando beatitudine nella cura di un orto che era il suo “Giardino segreto”, come nell’amato romanzo di Frances Hodgson Burnett.
Entrambi, spiega Emanuele Trevi, sentivano con dolore atroce quel “difetto di fabbrica della nostra esistenza” che accomuna gli esseri umani. Un mistero svelato, forse, nel dipinto “L’origine del mondo” in quella visita al museo parigino d’Orsay, dove Carbone esprimeva ai due amici estatica ammirazione per l’essenza pura di quell’immagine.
In un sogno Trevi è con Rocco, sulla strada durante uno dei loro ritorni in Calabria e l’altro lo guida in una folle corsa dentro una colonna di fuoco generata dall’incendio di un camion. Ne escono indenni perché Rocco, invece di frenare come vorrebbe prudenza, affronta le fiamme e supera il pericolo: “Invece di morire, in maniera sorprendente, siamo tornati a correre nella luce del giorno”.
Ma come è possibile recensire uno schifo di libro come quello di Roberto Emanuelli e poi recensire questo libro di Emanuele Trevi, è come passare dalla plastificate e finte tartine di uova di lompo di un buffet aziendale a qualcosa di più raffinato, divino, inesauribile... In questo contrasto c'è tutto il kitsch e l'assurdo di internet.... Se ha recensito l'irrecensibile e squallido Emanuelli, che litiga con la grammatica prima ancora che con la scrittura, non potrai mai capire nulla di questo libro di Trevi... mi spiace...
RispondiEliminaCarissimo, se leggi il mio articolo (non è una recensione) su Emanuelli vedrai che è cosa molto diversa dalla recensione su Trevi né mai ho pensato di mettere i due libri sullo stesso piano. E leggendo i due articoli lo si nota chiaramente. Ho parlato di Emanuelli perche' è un caso editoriale, che piaccia o no e credo tra l'altro che si capisca da quel mio articolo se a me la sua scrittura piace o no. Ti dico soltanto che Emanuelli - il quale di solito elogia i recensori che parlano entusiasticamente dei suoi libri - non ha gradito il mio articolo e che il suo fan club mi ha quasi lapidata per le mie parole....a te la conclusione se quel mio articolo era dello stesso tenore di questo sul bellissimo libro di Trevi
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