Contro i figli


Lina Meruane non è la prima autrice che osi profanare il divino concetto di maternità. “Contro i figli”, pamphlet della scrittrice cilena tradotto in Italia grazie a La Nuova Frontiera, va dritto al punto azzerando qualunque orpello politicamente corretto. La sua posizione ultrafemminista è dichiarata, ribadita ad ogni pagina senza possibilità di equivoci – il libro è una riedizione aggiornata del testo già pubblicato da Meruane nel 2014, il cui piatto forte è l’analisi critica (e sfacciatamente non imparziale) di un excursus esauriente sulle donne nella società occidentale del XXI secolo. Cuore pulsante di questo modello familiare di radici arcaiche è l’inviolabilità dell’istinto materno e la sua concreta realizzazione lungo tutto l’arco dell’esistenza femminile. In tante avevano già intinto sdegnate penne in una militanza dura contro quello che, nei fatti, travestito da senso di sacralità del grembo, ha rappresentato per anni uno strumento di sottomissione – o almeno di dislivello sessista – a svantaggio delle donne.
La scelta di riproporre questo libello da battaglia è opportuna, così come la pubblicazione in Italia, dove certe assatanate spinte conservatrici all’indietro (cosa ne penserebbe Meruane del tenero feto portachiavi ideato come gadget pro-genitorialità al congresso di Verona?) rendono necessarie come l’aria tesi da opporre allo zombie dell’oscurantismo che ri-avanza dalle tenebre del passato. Insomma, tempi di lotta per la famiglia. Non solo: la chiamata a procreare e immolare la propria esistenza ai figli consegna interamente alle donne la missione di realizzare l'incantesimo capitalista, che oggi ha spostato il procacciamento del benessere dallo stato alle famiglie. E la donna rifiuta- è chiaro - non se ne fa nulla, il gigante di sabbia si sgretola.
Ma la scrittrice cilena non è in vena di dibattiti o diplomazie di sorta: apocalittica o meno che la si consideri, la sua visione è estrema e non negoziabile, tutta racchiusa in quel “contro” del titolo. Perché l’aspetto più interessante di questo manifesto "child-free" è l’identificazione dei figli in insaziabili sanguisughe delle madri. Roba da scoraggiare qualunque istinto muliebre alla procreazione (se davvero esistesse e non fosse invece un mito strumentale di antico corso).
C’è chi ha prevedibilmente sollevato obiezioni sull’incompetenza in materia di Meruane, che non è madre. Ovvero: cosa può saperne lei del meraviglioso e soprannaturale legame che già in gravidanza si crea per la vita tra la donna e la sua creatura? Se lei avesse provato tutto ciò, non parlerebbe dei figli con tanto astio! Ma i detrattori hanno forse dimenticato la “mamma tigre” Amy Chua che, alla faccia dello spirito sacrificale, propugnava con la sua prole uno stile educativo tirannico a fin di bene, per tirar su veri uomini e donne immuni da vizi e debolezze. In un certo senso Meruane sembra dar ragione a Chua quando descrive la relazione-tipo tra una mamma contemporanea e i suoi figlioli. Limitandosi alla fascia anagrafica dei minori, autentici piccoli despoti venuti al mondo per schiavizzare le loro mamme. Poi, voglio citare come gemma preziosa la bocciatura del libro da parte dell'esaltata pro-lif e pro-family Costanza Signorelli, con queste illuminate parole: "Nonostante la feroce guerra del Nemico, la famiglia da Lui creata non morirà mai, ma continuerà a condurre alla Salvezza tutti gli uomini e le donne che lo vorranno. Femministe comprese". Non senza commentare "verrebbe da dire fai un figlio che ti passa, ma sarebbe una risposta facilotta". Che è come dire "io non sono razzista, però..."
Per maggiore chiarezza è bene precisare che Meruane non riflette sulle classiche mamme “italian style” tutte coccole, apprensione e atteggiamenti giustificatori dei capricci dei figli. Dice qualcosa di diverso, ammonendo da insidie subdole, di cui tante madri forse non sono consapevoli.
La mia personale esperienza di madre felice di esserlo vede anche qualche zona d’ombra, nella quale le parole di Lina Meruane scavano con un coltello molto acuminato. Sentirsi dire da una figlia undicenne “rispondi al telefono” o ricevere trenta telefonate in mezz’ora con soavi intimazioni a tornare a casa, mentre la stessa ragazzina si volatilizza fisicamente e mentalmente quando è ospite in casa di amichetti… ecco, la scrittrice cilena “a me” ha parlato di questo. E ad altre madri avrà parlato di sensi di colpa, paure o inadeguatezze, che molti figli fanno emergere inscenando comportamenti da terrorismo psicologico – in modo inconscio o per illogica volontà di ribellione a un ruolo subalterno che appare inaccettabile molto più precocemente dell’ingresso nella zona minata adolescenziale. Anche perché, ricorda la scrittrice, i ragazzi sono ben sostenuti nei loro diritti da una piramide istituzionale di difensori, che vanno dal pediatra, alla maestra all'assistente sociale fino ai nonni. Pronti a puntare il dito contro le mamme ree di imperfezione o semplicemente scissione individuale dalla simbiosi con i pargoli.
Impavida di passare per una hater della maternità, Lina Meruane solleva il velo su tabù innominabili. Nel libro si spiega molto bene perché questa tirannide emotiva i figli la esercitino come cannibali solo sulle madri, pur avendo anche padri a disposizione da bombardare. Certe considerazioni dell’autrice, che non è tipo da sussurrare all’orecchio, colpiscono in modo indubbiamente sgradevole ogni donna che ha voluto la propria maternità. E nessuna uscirà da questa lettura pentita di aver messo al mondo dei figli. Non è quello, del resto, l’obiettivo di Meruane. 
Il tabù è sottile… restando in superficie, si potrebbe pensare che la nostra dittatoriale generazione di figli sia un male della nostra epoca e rimpallare la responsabilità agli smartphone e internet. Ma se andiamo un po’ più a fondo, nelle pieghe della famiglia “tradizionale”, troveremo ben altro. E capiremo cosa significa quell’iroso “contro” gridato da Lina Meruane. Entreremo a dare un’occhiata spaventata lì, nel cerchio magico dove ardono anche i fuochi fatui dell’omossessualità satanica, la violenza domestica “isterica”, l'autorità patriarcale e il mito dell’alienazione parentale. Teorie che, tutte, vedono le donne alla sbarra, e quasi sempre dentro la loro dolce prigione di angeli del focolare. 
Da parte mia, e con la neutralità che mi assegna d’ufficio l’essere atea, riassumo con una parabola evangelica quello che, se detto da una partigiana cattiva e dal grembo vuoto, risulta molesto. Madre, ama i figli tuoi come te stessa. Non di più, ché per Gesù il “come” era abbastanza.

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