Post Truth - Docufilm

Internet, regno del libero sproloquio, far west di idee e commenti, prateria sconfinata di comunicazione analfabeta in tempo reale. Soprattutto, mefitico terreno di coltura (e conseguente contaminazione globale) delle famigerate fake news. Oggi – attenzione, oggi – fanno più paura di guerre, povertà e terrorismo. Tanto da smuovere Facebook e Google Adsense verso una crociata (benedetta dal governo americano) a colpi di censura pubblicitaria contro la post-truth. Citiamo il ragionier Fantozzi per spiegare con proprietà di linguaggio che: dicesi “post truth” la falsa verità fondata sulla distorta potenza delle emozioni, che pone al centro dell’informazione non i fatti ma la discussione da essa generata. Una locuzione in realtà non nuova, che iniziò a circolare tra i massmediologi negli anni Novanta, ma sembra scoperta ora.. e incollata come etichetta spaventosa esclusivamente al web.
Un punto di vista orgogliosamente “folle” sul rapporto tra Internet, fake news e controllo della pubblica opinione lo propone il docufilm “Post Truth”, girato e prodotto dal collettivo di videomaker bolognesi MancHego San, e che dopo alcune visioni garibaldine in rete negli scorsi mesi, alla fine dell’estate sarà disponibile on line gratuitamente al link https://www.facebook.com/Post.Truth.docufilm (fino a prossima censura, s’intende, quindi stay tuned e affrettatevi).
In circa un’ora e un quarto, di carne al fuoco ce n’è tanta: l’excursus socio-storico è abbastanza completo e il montaggio da solo vale la visione (anche grazie a cultissime citazioni cinematografiche, tra cui Lynch, Cronenberg e Carpenter, ma forse io sono di parte…). Virgiliani nocchieri della narrazione sono un gruppetto di schizoidi totali (Maurizio Vai, Stefania Milia, Vincenzo Rana, Matteo Miucci), degni compagni di delirio di già riconosciuti pazzi come il sociologo Jurgen Habermas, il prof Noam Chomsky e il filosofo Guy Debord, fino allo scrittore David Foster Wallace (e se lui, in quanto romanziere, non è credibile, occorre ricordare che lo furono, sul versante opposto, Ruyard Kipling e Thomas Hardy, assoldati dall’ufficio di propaganda britannico Wellington House dopo la Grande Guerra). I citati e altri personaggi sono tutti convinti sostenitori di una ben più antica radice dell’attendibilità e imparzialità dei media. Lo hanno detto con dati, statistiche, teorie – qualcuno pagando questa rivelazione con l’esilio sociale e la malattia.
Il docufilm va certamente guardato mantenendo una personale prospettiva critica – perché qualche considerazione “partigiana” sui media italiana si nota, e, viste le premesse, è volontaria; questo team artistico di essere politicamente corretto se ne frega. Del resto la conclusione a cui si arriva è che la verità (come sostenne Nietzsche) non esiste, men che meno sui media. Ognuno costruisca la propria, tentando di non farsi ingannare - al massimo di sbagliare con la sua testa senza per questo essere indirizzato verso una cura psichiatrica. Ovvero, un altro modo per evocare quel mostro mitologico che è la libertà di opinione.
La domanda ricorrente che fa da sottotesto al docufilm è: ma veramente fate? Cioè, sul serio questo mare magnum di idiozie spacciate per verità è nato su Internet? Siamo sicuri di non aver mai sentito, prima di intercettare bufale sparate nell’aere virtuale da redazioni fantasma, il celebre assunto secondo cui “bad news is only news, good news is no news”? Sicuri di non ricordare la presa emotiva di certe immagini scioccanti, di fatti di cronaca che hanno nutrito – e non dal web - le nostre paure di bambini, e poi di genitori, uomini e donne? Insomma, se proviamo a non farci disorientare dalle latitudini infinite della Rete, potremmo considerare che, in relazione alla post-truth, i blogger sono innocui cazzari. E gli allarmi lanciati su Internet da multinazionali, colossi economici e potenze mondiali dovrebbero far sorgere qualche dubbio che tutta la faccenda non sia proprio, per restare in tema, notizia dell’ultima ora (che comunque sulla Rete sarebbe già vecchia). Tra l’altro, una recente ricerca condotta da università statunitensi ha chiarito come sul web il pubblico dei siti di fake news sia molto più ristretto di quello dei mass media ufficiali, saldi al comando della rispettabilità in campo di informazione.
Ma quello che fa imbufalire (non per fare giochi di parole) MancHego è che gli internauti vengano appellati cretini pronti a bere ogni assurdità. Altro che fact-checking: qui l’unico antidoto suggerito (anche dall’ex presidente Usa Obama) ai webeti contro le false verità on line è fiutare il “coinvolgimento emotivo” e fuggire a gambe levate se solo se ne sentisse l’odore. Solo su internet, però.
Da appartenente alla categoria professionale, è confortante scoprire, sui titoli di coda, che nessun giornalista è stato maltrattato per la realizzazione del film. E nonostante tra gli ospiti del documentario vi siano alcuni “pentiti” (come Marta Tananyan, troll dell’Agenzia di stampa russa Sputnik), si ammette che, sì, ogni tanto nel mondo nasce pure un giornalista libero. Se poi lo facciano lavorare, è altra faccenda. All’uopo - per provarci, a cercare quest’inafferrabile verità – aiuta molto non avere padroni.









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