Joker

“Perdona la mia risata, ho una malattia”, è scritto sul biglietto vergato in corsivo elegante e un po’ luttuoso che Arthur Fleck esibisce quando qualcuno s’indispettisce per l’irrefrenabile riso che lo travolge senza senso né riguardo in mezzo alla gente. Eppure, annota lui su un diario di pensieri schizofrenici, pure quando sanno che la tua mente è malata, gli altri si aspettano ugualmente che tu ti comporti come se non fosse così. Ed ecco che il comico fallito Joaquin Phoenix è per tutti sgradevolmente patetico, forse anche ridicolo ma mai divertente, ciò che invece è la massima aspirazione di quel giovane disadattato in cerca di gloria in una Gotham City soffocata dal degrado.
Il nuovo Joker cinematografico di Todd Phillips si regge interamente sulle istrioniche spalle di Phoenix, e già critica, media e social inneggiano per lui all’Oscar. Sforbiciata ogni pur minima citazione dal fumetto DC Comics, il film vincitore del Leone d’oro a Venezia scava nelle origini del celebre antagonista di Batman e l’atmosfera oscura, quella sì, c’è tutta. 
Gotham è nerissima, popolata di oppressori onnipotenti (il tracotante magnate Wayne ricorda qualche governante contemporaneo; il salvifico uomo-pipistrello non è ancora nato) e torme di oppressi divorati dalla rabbia. Tra questi Arthur-Joker, a cui Phoenix regala una grandeur di pazzia che rapidamente getta lo spettatore dall’involontario dileggio a un’agghiacciante angoscia. Sì, perché quelle movenze ballerine, l’andatura barcollante e il ghigno rumoroso fanno anche ridere, ma di quel gusto del grottesco vicinissimo ai confini della paura. 
Un clown nel significato più dispregiativo del termine, una maschera da sbeffeggiare ma a debita distanza, quasi a non esserne infettati. Non è iconico come Chaplin (citato da Todd Phillips con fotogrammi del cultissimo “Luci della ribalta”), né mostruoso come l’IT di Stephen King. E’ uno scarto della società classista di Gotham, dove gli ultimi sono trattati a calci e pugni, tumefatti e luridi sull’asfalto a far da preda ai ratti giganti che assaltano fuori dalle fogne durante un’apocalittica invasione. Arthur provoca il riso nella misura in cui è oggetto di una disumana sopraffazione, punching-ball vivente di ogni umiliazione possibile da infliggere, valvola di sfogo per perversioni di sfrenata bestialità. 
Ma non è un artista, non è comico, non diverte. La sua chiassosa risata, che oggi rimanda agli eccessi demenziali delle webstar, lo dismette da oggetto di giullaresche derisioni nell’attimo in cui ci si accorge con un gelido moto di paura che lui è il Male. Deluso l’auspicio della madre, non meno alienata e vinta del figlio, di indossare sempre il sorriso per diffondere gioia, Arthur uccide tre broker che molestavano una donna in metropolitana e diventa un eroe della ribellione. Adesso è Joker, il demone assoluto, l’angelo caduto e incolpevole (a renderlo psicotico erano state le violenze subite nell’infanzia), che si offre agli sguardi dei sani in una furiosa onda d’urto. La sua risata sibila: “Esisto, sono tra voi, sono il vostro incubo”. E la cosa gli piace. 
Phoenix mette in scena la diversità nel pieno delirio narcisistico, l’elogio della follia sublimato nell’ideale di un’uscita di scena megalomane: la mia morte avrà più senso di quanto ne ha avuta la mia vita? Un climax di violenza consacrato dall’ispirazione musicale (in Arancia Meccanica era il divino Ludovico Beethoven, qui il rock potente e onirico di Gary Glitter e lo standard di Frank Sinatra che canta “That’s life”, come nello slogan di Franklin Murray (un meraviglioso De Niro in versione bsstardo imperatore televisivo  - peraltro specchiato nelle reminiscenze visive tra Arthur e l'invasato magnifico vendicatore di Taxi Driver e, trionfo di metacinema, nel se stesso re per una notte, entrambe citazioni da Martin Scorsese). Joker è sempre più spietato, la sua missione è liberare il pianeta di tutte le persone orribili. 
Le sue gesta (non faccio spoiler ma…assolutamente terribili e maestose) suscitano emulazione e non è un caso che l’uscita del film di Phillips abbia messo in allarme gli Usa: il pensiero è inevitabilmente andato al massacro di Aurora del 2012, nel cinema dove era in cartellone la prima del “Cavaliere Oscuro” e il giovane stragista mascherato dal pagliaccio urlando si presentò come Joker. Una maledizione, si disse, anche perché su quel set era morto per overdose il Joker Heath Ledger (il bacio rapinoso di Phoenix all’attempata signora ospite di Murray nel film è un omaggio all’attore scomparso, che durante una premiere regalò un inatteso french kiss a un’ammiratrice, svenuta per l’emozione).
Mentre a Gotham inizia la fine del mondo, non sappiamo più distinguere il bene dal male (si è parlato, a proposito del personaggio di Joker in questo film, di apologia della violenza; anche i bambini hanno il diritto di stare dalla parte del cattivo e, ricordando ancora Aurora, l’identificazione con questo cruento antieroe è in effetti un tantinello rischiosa). Soprattutto non lo sa Arthur-Joker. In un labirinto di porte fisiche e mentali, orrori e crimini potrebbero essere stati soltanto immaginati. Ad alimentare il dubbio resta il sorriso eterno del Joker, intrappolato nella sua realtà parallela e costretto per sempre ad alzare gli angoli delle labbra in una finta allegria, anche a costo di disegnare sul viso quella curva con il sangue.

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