Parasite



Scene di lotta di classe in una Corea del Sud surreale che, fino a poco più di un mese fa, all’epoca del trionfo agli Oscar di “Parasite”, sembrava narrata in futuro distopico. A vederlo oggi, in piena quarantena da Covid-19, questo film di Bong Joon-ho che merita tutti i premi guadagnati (i più importanti, oltre le quattro principali statuette dell’Academy, sono la Palma d’Oro, un Cesar, un Golden Globe e un David) appare un po’ meno fantascienza e ben più vicino a una contemporaneità da incubo in cui la vita è un incessante e spietato palio sociale tra gli esseri umani. Oggetto del desiderio non è la sopravvivenza tout court ma l’elevazione di status, lo scatto evolutivo di ceto e la conseguente esibizione di sfarzo come riconoscimento pubblico dello “strappo” evidente da quelli che restano giù, nei bassifondi.


I parassiti del titolo sono i componenti della famiglia Kim, alloggiata dentro un seminterrato in una specie di banlieue coreana di disperati, accattoni e pazzi. Un habitat suburbano fatto di immondizia, pozzanghere luride e palazzi guasti, che ricorda la Gotham fatiscente di “Joker”: scenario comune a due film diversissimi come il rancore sottopelle degli oppressi verso le classi dominanti, pronta a esplodere nella violenza qui e nella pellicola di Todd Phillips, entrambe premiate in un’edizione degli Oscar volutamente rivoluzionaria.
Nella casa lo sporco, l’umidità, il caotico assembramento di masserizie è visivamente eccessivo e sgradevole: l’effetto non è quello della miseria materiale, ma di un rozzo lassismo, un’endemica ignoranza di ogni cura familiare e civile. Per il resto i Kim, percettori cronici di sussidi vari, sono tutt’altro che cafoni: uniti da grande affetto, astuti, intraprendenti e abilissimi architetti di truffe, riescono in breve ad ottenere lauti impieghi presso i benestanti Park, a cui si presentano come estranei tra loro riuscendo a farsi assumere insieme nella stessa lussuosa villa. L’atmosfera è da commedia nera (in genesi questa doveva essere un’opera teatrale e i dialoghi perfetti lo attestano), l’assoluto cinismo con cui i quattro portano avanti i loro piani mette i brividi (arrivano a causare una crisi asmatica alla vecchia governante per farla licenziare), raccontato com’è senza concessioni all’emotività e persino con dissacrante humour. I soldi iniziano ad entrare nelle casse familiari, ma non è quello l’obiettivo degli avidi Kim, che vogliono salire di grado e abbandonare – materialmente e socialmente - il seminterrato. Tutto precipita quando si svela la presenza nella villa di altri parassiti, gli ex domestici Moon-gwang e Geun-sae, i quali in realtà hanno un atteggiamento remissivo e rassegnato verso la propria condizione, accontentandosi di vivere in segreto a sbafo nascosti nel bunker antinucleare dei Park.
Scoppia così una vera e propria “guerra tra poveri”, consumata in stile pulp orientale con tanto sangue ed efferatezze iperboliche tra le stanze e il giardino dell’ambita villa: contrapposti sono i più concreti coniugi Moon e Geun (con il cultissimo sottofondo di Gianni Morandi che canta “In ginocchio da te” mentre i rivali sono, appunto, proni e mani in alto sotto la minaccia di un videoricatto) e gli arrivisti Kim, ossessionati dal marcare la differenza con l’altro gruppo di poveracci. Protetti anche dal potere misterioso di una roccia "attira denaro", hanno tutte le doti necessarie per farcela, ad esempio la bellezza dei ricchi, che non fa difetto ai due figli (il ragazzo infatti riesce a conquistare la rampolla Park, sulla quale ha mire matrimoniali). A tradirli però è l’odore. Si lavano, si camuffano, vestono modestamente ma bene, eppure quel tanfo di seminterrato resta incollato addosso ed è un marchio di inferiorità. Improvvisamente la commedia diventa tragedia umana. Lo stato di nascita è una disgrazia che non si può emendare, neanche con il massimo impegno, né con la furbizia e l’inganno. I ricchi hanno quell’odore di nuovo, di candore e pulizia. Lo hanno per natura, pure se dentro sono corrotti. E sono gentili, non gridano e non si arrabbiano mai. Certo – commenta la matriarca Kim - è così perché sono ricchi, se fossi ricca sarei gentile anch’io.
Invece la verità è che i ricchi sono gentili per educazione e cortesia, non odiano perché non ne hanno bisogno. Ma anche quando vogliono essere generosi e affabili, mantengono la giusta distanza perché non sopportano l’odore della povertà, è più forte di loro e non possono evitarlo. I Kim, insomma, non saranno mai come loro, e questo scatena la rabbia che porterà all’epilogo crudissimo della storia. “Parasite” è un film che disorienta e spiazza per la rapida discesa nella narrazione dalla satira al dramma. Dura parabola dell’umanità senza redenzione. Una macchia d’origine, come direbbe Roth, indelebile nella società globale, che continuerà per sempre ad essere divisa in due metà d’impossibile osmosi. La paura del contagio, domani, avrà piallato ogni dislivello – uguali dinnanzi alla roulette della malattia? Le ultime immagini di “Parasite”, adattabili a un qualunque futuro ipotetico, non lasciano molte speranze sulla sutura della ferita sociale. E fa paura credere che a risolvere la questione al posto nostro possa essere la mano cieca e imparziale di un virus. Sarebbe bello pensare che invece saremo noi, appena salvi, a decidere di cambiare il mondo. Non con la morte, ma scoprendoci finalmente umani.

Commenti

  1. per sempre ad essere divisa in due metà d’impossibile osmosi?

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  2. e i film https://igds.stream sono come la beatitudine. Il cronometro è un meccanismo troppo rozzo per misurare i minuti di felicità - lunghi come l'infinito e veloci come un lampo

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