LockTown

Questo articolo sul documentario LockTown di Emanuele Freni è stato pubblicato sul Quotidiano del Sud
 




Il lungomare deserto, abitato solo da leggere ali di vento. La serrata del corso Garibaldi con le saracinesche abbassate e le lente sagome di qualche auto della polizia in transito. Il silenzio e le facciate immobili dei palazzi. Era marzo, un passato recente e insieme remoto, quei giorni fuori dal tempo che non dimenticheremo mai e dentro i quali ci riportano le immagini di “LockTown”, il documentario di Emanuele Freni presentato nella prima serata del Reggio Film Festival. 
Un piccolo choc per gli spettatori dell’Arena dello Stretto: sullo schermo c’erano la nostra città e la nostra quarantena filmata durante quei lunghi mesi dalla troupe, con l’autorizzazione dell’ente metropolitano, per registrare un momento storico che rimarrà straordinario a futura memoria. Il lockdown visto da qui. L’idea di Michele Geria, autore del soggetto (e direttore generale del Rcff), è stata subito accolta con entusiasmo da Freni, giovane cineasta di origini siciliane, coinvolgendo la cittadinanza in un progetto di forte impatto emotivo: lavorazione in presa diretta, quando non sapevamo quanto sarebbe durata e cosa sarebbe accaduto.
Nel film prodotto da BaoBei Entertainment ci sono, tra gli altri, il sindaco Giuseppe Falcomatà, il presidente della Camera di Commercio Ninni Tramontana, l’imprenditore anti-‘ndrangheta Tiberio Bentivoglio, il giornalista Giusva Branca e il mister della Reggina, Domenico Toscano. Ma soprattutto ci sono commercianti, edicolanti, lavoratori, padri e madri di famiglia. Insomma, la gente comune che ha attraversato la chiusura con impegno e coraggio, continuando a vivere e senza perdere la speranza.
Reggio è stata tra le città del Sud più virtuose nel rispetto delle regole antiCovid decretate dal Governo. Alle prime unghiate del virus, molti esercenti hanno interrotto l’attività senza aspettare lo stop ufficiale, consapevoli di non poter garantire i necessari livelli di sicurezza. Lo stesso sindaco aveva già vietato passeggiate e chiuso bar e negozi in anticipo rispetto all’inizio della Fase 1. Tutto questo ha protetto Reggio da una più potente aggressività del Coronavirus. Ognuno ha fatto la sua parte: dai calciatori della squadra cittadina che hanno continuato ad allenarsi in casa, pur a distanza avvolti dal sostegno dei tifosi, e oggi hanno meritato la promozione; fino a chi, come l’istruttrice di fitness di origine argentina Monica Ligato, ha offerto lezioni gratuite su Facebook per affrontare la quarantena con l’energia del movimento fisico.
Lo stadio Granillo muto è uno scenario surreale, le voci assenti della curva sono minuscoli numi tutelari che restano a vegliare il rientro in campo nelle lettere adesive degli slogan, il rosso dei sedili e il verde dell’erba sotto un sole sempre caldo, che è l’unica cosa viva. Tra le strade vuote e le auto ferme, brilla qualche disegno di bambino, con l’arcobaleno del motto tricolore, “andrà tutto bene”. Così è stato, e alla fine del docufilm i reggini tornano all’aria aperta. C’è voglia di luce e bellezza, Giusva Branca, sullo sfondo del mare dello Stretto, commenta: «Come potrebbe essere diversamente? Forse se vivessimo in un posto buio e piovoso, ma come si fa a non voler uscire in questo paradiso!»
Se la storia del Covid è davvero arrivata al suo lieto fine ancora non lo sappiamo. Rivedere quella Reggio desolata fa impressione perché aleggia la segreta paura che il lockdown possa ripetersi e ci ritroveremo a guardare dietro le finestre come in una gabbia. Siamo stati testimoni di un evento epocale ed è naturale che le immagini del docufilm provochino qualche batticuore – e forse proprio per drenare la carica emozionale si è scelto di non ascoltare le storie di chi ha affrontato la malattia, ha dovuto allontanarsi dalle persone care per non metterle a rischio, è stato separato da affetti confinati a migliaia di chilometri di lontananza? Sicuramente raccontare alcune vicende avrebbe implicato una virata provocatoria che non era nelle intenzioni degli autori. Stupisce però, questo sì, una lacuna importante nel lavoro di Freni, dove non esiste accenno alla scuola, che invece ha rappresentato (e rappresenta tutt’ora) la ferita più dolorosa della pandemia. La scuola che potrebbe essere materia per un intero, ulteriore documentario, del quale tra poche settimane scriveremo il prossimo capitolo. Con l’auspicio che l’incipit di questo film sia l’immagine dei portoni che si riaprono per accogliere chiassosi ragazzi con gli zaini in spalla.



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