Non questa volta

Questa mia recensione al romanzo "Non questa volta" di Katia Colica, edito da Castelvecchi, è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud






Un giovane uomo che si è perso, senza amore né felicità, forse senza voglia di vivere. Una città crivellata di colpi, ferita, triste eppure calda di fuoco sotto le ceneri dei suoi mali. Storia di errori e rinascite, in “Non questa volta” (in uscita per Castelvecchi) è racchiuso tutto il mondo amato e narrato dalla scrittrice reggina Katia Colica. Opera terza dopo “Il tacco di Dio” e “Ancora una scusa per restare”, questo lavoro è diverso dai precedenti, che erano a metà tra inchiesta e racconto, scegliendo la forma compiuta del romanzo. Lo sguardo è sempre su coloro che la grande letteratura ci ha insegnato a chiamare gli ultimi, i superbi Vinti verghiani, e infatti la narrazione di Katia è molto classica, non si piega alla dittatura editoriale del linguaggio piatto e stereotipato, osa similitudini, metafore e bel lessico. Ma soprattutto difende la parola come evocatrice di sentimenti.
Dire che la storia vada controcorrente (e contro le mode) è poco. Il protagonista è un detenuto di cui non conosceremo il nome fino alle ultime righe del libro, solo Never, nomignolo ereditato dalla professione di insegnante d’inglese; l’allusione, potentissima, a un amore nascente è minimalista, non ci sono concessioni a scene di sesso; il flashback di azione (un topic molto gettonato dagli editor) che ci porta dentro un ufficio postale dove si svolge la rapina di cui è accusato Never, non indugia sulla violenza splatter ma accenna a dettagli agghiaccianti: il giocattolo perduto di un piccolo ostaggio e una morte disumana e insensata; occhiali rotti destinati a diventare futuro pegno amoroso. Cassata anche l’invadenza di social e chat. Insomma nulla è scritto a bella posta per scioccare, cercare il colpo di teatro, esibire collaudate trame da fiction, ammiccare a target di lettori. 
Tutto si svolge dentro il carcere di San Pietro, dove le vite interrotte degli ospiti rivelano un universo di dolore e insieme cristallina dignità. Never ha l’imperturbabilità del meraviglioso antieroe di “Libera i miei nemici” di Rocco Carbone. Anche lui reca addosso cicatrici indolori, è uno che ha imparato l’assenza d’amore in una gelida famiglia borghese. In cattedra a scuola si anestetizzava insieme a studenti pigri e abulici, ai quali offriva un reciproco scambio di incomunicabilità.
In carcere, invece, si scopre a commuoversi per le passioni virili dei compagni di prigionia e piangere rabbioso per il suicidio del disgraziato Bee Gees. Tasselli in un mosaico di ordinaria disperazione, l’esistenza dietro le sbarre. Per Never non è tanto diversa da quella fuori, dove lo hanno gettato in mare a tradimento come il giorno in cui imparò a nuotare, spietatamente, cioè nell’unico modo possibile, per lo meno a Sud.
Il genius loci, eccolo. C’è l’altra protagonista del romanzo, la città, che è quella dell’autrice, Reggio Calabria. Letterariamente di scarso aplomb, Reggio è già stata ambientazione per narrativa contemporanea, anche con qualche tentativo di superare gli immancabili binomi con la ‘ndrangheta e l’emigrazione di vecchia e nuova generazione (quasi una tassa per libri o film che parlano di Calabria). Ma questa Reggio è diversa, soprattutto è fiera di esserlo. E’ una città scrutata nelle periferie (luogo del cuore per Katia Colica, che vive e opera qui e non è mai partita), narrata attraverso punti di riferimento che sanno di casa per chi è nato qui e per gli altri disegnano una mappa di luoghi sospesi e immobili, un territorio urbano caparbio e cresciuto sghembo tra i proverbi dialettali dei nonni e la sopravvivenza underground dei ragazzi. Quelli come Never non sono da corso Garibaldi ma da Sbarre Centrali, per intenderci. Una metà cenerentola della città metropolitana, dove si ride, si beve, si fa a botte e ci s’innamora, persino di più.
Al termine di un racconto che sussurra con dolcezza alla parte sbagliata di ognuno di noi, quella che dobbiamo suturare per tentare di essere felici, Never decide di credere nell’amore, grazie alla dolce Angela. Un finale che mi ha ricordato un po’ il bellissimo epilogo della “Ragazza di Bube” di Cassola. Solo l’amore è capace di superare il tempo e lo spazio: la sola coraggiosa intenzione coraggio è già puro miracolo, la certezza di essere importanti per qualcuno – in una poesia di Prevert, il detenuto imbrattato di merda riceve in dono un’arancia e sa che lei lo pensa sempre, che non lo ha dimenticato. Se pure domani finisse, mentre aspetti che si riapra quel portone, l’amore ti ha dato un altro motivo per vivere, non importa per quanto sarà.

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