Regina
Questa mia recensione del film "Regina" di Alessandro Grande, presentato in concorso al Torino Film Festival, è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud.
Era già stata una bella notizia la scelta del promettente regista Alessandro Grande di tornare in Calabria per il suo primo lungometraggio. Dopo aver visto “Regina”, unico film italiano in concorso al festival di Torino, l’auspicio positivo è confermato dalla certezza di trovarsi davanti a un raro esempio del nuovo autoriale italiano. Che fa bene al cinema ma soprattutto alla Calabria, rappresentata fuori dai cliché e qui ambientazione di una storia molto contemporanea però universale.
E’ un racconto di formazione che tocca corde emotive vibranti perché indaga la famiglia. Francesco Montanari è Luigi, padre amorevole ma inadeguato di Regina, (la bravissima diciassettenne Ginevra Francesconi, vista anche nella popolare serie “Marti e Sara”), che vive tra le montagne della Sila sognando di diventare cantante. La madre li ha lasciati da anni, genitore e figlia hanno un legame molto forte, di complicità e sostegno reciproco – lui pure è un ex musicista. Durante un giro in barca sul lago, i due accidentalmente colpiscono a morte un sub e il padre decide che non dovranno dire nulla. Ma Regina non riesce a dimenticare e da quel giorno la sua vita cambia – per tutto il film non la vedremo più sorridere. Quando conosce la famiglia dell’uomo ucciso e il figlioletto ignaro dei fatti il suo senso di colpa diventa insopportabile. Dolore e rabbia verso le ingiustizie del mondo si trasformano in una ribellione solitaria: Regina è la voce della verità, l’atto d’accusa dei bambini per ogni menzogna o trascuratezza subita dagli adulti. La sua aspirazione all’onestà diventa la lezione impietosa dei figli ai genitori immaturi e deresponsabilizzati.
Il film è un piccolo gioiello di cinema pulito, essenziale, costruito su una disciplina quasi etica dell’inquadratura ma mai freddo. Una menzione è obbligatoria per i dialoghi perfetti, senza sbavature superflue. La natura selvaggia della Sila non è pura scenografia ma funzionale al racconto, ritratta nella bellezza degli ampi spazi, dei colori inaspriti dal rigore dell’inverno. Molte le scene notturne, dove la cupezza dei boschi scuri sottolinea l’angoscia della giovane protagonista.
Per una volta la ‘ndrangheta non si nomina – s’intuisce invece l’oppressione di un microcosmo criminale che in questa storia è l’usura, il lavoro nero, lo sfruttamento della piccola manovalanza assoldata per fame (il sub era minacciato dagli strozzini, ai quali si era rivolto per poter mettere su la casa familiare). Per una volta, grazie alla presenza nel cast di ottimi attori calabresi (Max Mazzotta, Emilia Brandi), l’inflessione dialettale è credibile e non colonizzata da un ibrido vernacolo senza terra che imita il siciliano – appena fuori posto qualche parola pittoresca, quel “carusa” forse ritenuto di evocazione geografica più precisa rispetto al cosentino “guagliona”, che ai forestieri richiama il napoletano e in quel contesto avrebbe fatto subito, e a sproposito, un effetto Gomorra.
E finalmente la gente non indossa vestagliette e coppole, e i ragazzi portano le stesse felpe e sneakers che indossano ovunque da Palermo a Torino. Sì, anche sulle rive del lago Arvo, caro Muccino. Testimonial più efficace di Bova e consorte, nel film appare Dario Brunori, che interpreta se stesso nel concerto che Regina sogna di aprire con una sua esibizione. Grande ricorda l’approccio con il cantautore: «Mi disse subito ‘no, mi dispiace non posso, io sono cosentino e tu catanzarese, sai, la rivalità tra le nostre città’. Era ovviamente uno scherzo ed è stato felicissimo di partecipare e io di ospitare un artista come lui».
Non sarà un caso se, nonostante la storia sia drammatica e il sentimento della protagonista claustrofobico (come quello di tutti gli adolescenti), certi scenari fanno venire voglia di vedere dal vivo quegli alberi altissimi, quelle distese d’acqua. L’appeal di questa terra fuori da standard narrativi desueti era già nota ai produttori di questa pellicola, tra cui c’è Bianca Film, che già era stata nei progetti di “Preferisco il rumore del mare” di Calopresti, “Anime nere” di Munzi e “Il padre d’Italia” di Mollo.
E per il catanzarese Alessandro Grande, già premiato con il David per il cortometraggio “Bismillah”, la Calabria è il termometro degli stati d’animo dei personaggi, che si specchiano nelle variazioni della luce, nel passaggio dal sole al gelo mentre esplode il conflitto tra Regina e il padre Luigi. In questa opera prima c’è tanto di personale per il regista: «Tutti sanno – confida in conferenza stampa - che io volevo fare il cantante e la musica è sempre stata una componente della mia vita. Poi ho sempre amato più la montagna del mare. In Regina identifico molto i sogni e la voglia di evasione di quando ero ragazzo».
Ginevra Francesconi nel film recita e canta pure benissimo. «La musica – dice - mi ha aiutato a concentrarmi perché il set con quel clima di montagna è stato molto duro. Ma mi ha temprato, è stato importante per entrare nella ruolo di Regina».
Francesco Montanaro ha richiamato l’attenzione sul dialogo generazionale, difficile ma risolutivo, al centro della trama: «Io non sono genitore ma mia madre, quando ha visto film, mi ha detto che dovrebbe essere proiettato nelle scuole».
“Regina”, promosso dalla film commission calabrese uscente, è coprodotto da Rai Cinema, partner che potrebbe assicurargli una prossima distribuzione televisiva che mitighi la penalizzazione del lockdown, arrivato lo scorso anno proprio quando era imminente l’uscita nelle sale, rimandata nuovamente adesso per la nuova serrata di cinema e teatri.
Era già stata una bella notizia la scelta del promettente regista Alessandro Grande di tornare in Calabria per il suo primo lungometraggio. Dopo aver visto “Regina”, unico film italiano in concorso al festival di Torino, l’auspicio positivo è confermato dalla certezza di trovarsi davanti a un raro esempio del nuovo autoriale italiano. Che fa bene al cinema ma soprattutto alla Calabria, rappresentata fuori dai cliché e qui ambientazione di una storia molto contemporanea però universale.
E’ un racconto di formazione che tocca corde emotive vibranti perché indaga la famiglia. Francesco Montanari è Luigi, padre amorevole ma inadeguato di Regina, (la bravissima diciassettenne Ginevra Francesconi, vista anche nella popolare serie “Marti e Sara”), che vive tra le montagne della Sila sognando di diventare cantante. La madre li ha lasciati da anni, genitore e figlia hanno un legame molto forte, di complicità e sostegno reciproco – lui pure è un ex musicista. Durante un giro in barca sul lago, i due accidentalmente colpiscono a morte un sub e il padre decide che non dovranno dire nulla. Ma Regina non riesce a dimenticare e da quel giorno la sua vita cambia – per tutto il film non la vedremo più sorridere. Quando conosce la famiglia dell’uomo ucciso e il figlioletto ignaro dei fatti il suo senso di colpa diventa insopportabile. Dolore e rabbia verso le ingiustizie del mondo si trasformano in una ribellione solitaria: Regina è la voce della verità, l’atto d’accusa dei bambini per ogni menzogna o trascuratezza subita dagli adulti. La sua aspirazione all’onestà diventa la lezione impietosa dei figli ai genitori immaturi e deresponsabilizzati.
Il film è un piccolo gioiello di cinema pulito, essenziale, costruito su una disciplina quasi etica dell’inquadratura ma mai freddo. Una menzione è obbligatoria per i dialoghi perfetti, senza sbavature superflue. La natura selvaggia della Sila non è pura scenografia ma funzionale al racconto, ritratta nella bellezza degli ampi spazi, dei colori inaspriti dal rigore dell’inverno. Molte le scene notturne, dove la cupezza dei boschi scuri sottolinea l’angoscia della giovane protagonista.
Per una volta la ‘ndrangheta non si nomina – s’intuisce invece l’oppressione di un microcosmo criminale che in questa storia è l’usura, il lavoro nero, lo sfruttamento della piccola manovalanza assoldata per fame (il sub era minacciato dagli strozzini, ai quali si era rivolto per poter mettere su la casa familiare). Per una volta, grazie alla presenza nel cast di ottimi attori calabresi (Max Mazzotta, Emilia Brandi), l’inflessione dialettale è credibile e non colonizzata da un ibrido vernacolo senza terra che imita il siciliano – appena fuori posto qualche parola pittoresca, quel “carusa” forse ritenuto di evocazione geografica più precisa rispetto al cosentino “guagliona”, che ai forestieri richiama il napoletano e in quel contesto avrebbe fatto subito, e a sproposito, un effetto Gomorra.
E finalmente la gente non indossa vestagliette e coppole, e i ragazzi portano le stesse felpe e sneakers che indossano ovunque da Palermo a Torino. Sì, anche sulle rive del lago Arvo, caro Muccino. Testimonial più efficace di Bova e consorte, nel film appare Dario Brunori, che interpreta se stesso nel concerto che Regina sogna di aprire con una sua esibizione. Grande ricorda l’approccio con il cantautore: «Mi disse subito ‘no, mi dispiace non posso, io sono cosentino e tu catanzarese, sai, la rivalità tra le nostre città’. Era ovviamente uno scherzo ed è stato felicissimo di partecipare e io di ospitare un artista come lui».
Non sarà un caso se, nonostante la storia sia drammatica e il sentimento della protagonista claustrofobico (come quello di tutti gli adolescenti), certi scenari fanno venire voglia di vedere dal vivo quegli alberi altissimi, quelle distese d’acqua. L’appeal di questa terra fuori da standard narrativi desueti era già nota ai produttori di questa pellicola, tra cui c’è Bianca Film, che già era stata nei progetti di “Preferisco il rumore del mare” di Calopresti, “Anime nere” di Munzi e “Il padre d’Italia” di Mollo.
E per il catanzarese Alessandro Grande, già premiato con il David per il cortometraggio “Bismillah”, la Calabria è il termometro degli stati d’animo dei personaggi, che si specchiano nelle variazioni della luce, nel passaggio dal sole al gelo mentre esplode il conflitto tra Regina e il padre Luigi. In questa opera prima c’è tanto di personale per il regista: «Tutti sanno – confida in conferenza stampa - che io volevo fare il cantante e la musica è sempre stata una componente della mia vita. Poi ho sempre amato più la montagna del mare. In Regina identifico molto i sogni e la voglia di evasione di quando ero ragazzo».
Ginevra Francesconi nel film recita e canta pure benissimo. «La musica – dice - mi ha aiutato a concentrarmi perché il set con quel clima di montagna è stato molto duro. Ma mi ha temprato, è stato importante per entrare nella ruolo di Regina».
Francesco Montanaro ha richiamato l’attenzione sul dialogo generazionale, difficile ma risolutivo, al centro della trama: «Io non sono genitore ma mia madre, quando ha visto film, mi ha detto che dovrebbe essere proiettato nelle scuole».
“Regina”, promosso dalla film commission calabrese uscente, è coprodotto da Rai Cinema, partner che potrebbe assicurargli una prossima distribuzione televisiva che mitighi la penalizzazione del lockdown, arrivato lo scorso anno proprio quando era imminente l’uscita nelle sale, rimandata nuovamente adesso per la nuova serrata di cinema e teatri.
una prossima distribuzione televisiva?
RispondiEliminaIl destino non deve darci quello che ci aspettiamo, i film https://altadefinizionenuovo.co lo rendono chiaro e ampliano la visione.
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