Alice femminista e sognatrice, regina dell'8 marzo



La mia donna del cuore di questo 8 marzo è Alice nel Paese delle Meraviglie. La adoro, tanto da aver dato questo nome a mia figlia (sì, nel mio caso è proprio per la fiaba, non per De Gregori). La fantastica protagonista dei romanzi di Lewis Carroll può ben essere simbolo di questa giornata perché – tutt’altro che impropriamente - è un’antesignana della consapevolezza femminista. 
Nella vita vera era una semplice bambina, Alice Liddell, figlia di amici del reverendo Charles Dodgson (reale identità di Carroll): a lei, durante una gita estiva in barca ad Oxford, il matematico, cedendo al suo alter ego letterario, dedicò il lungo racconto fiabesco capolavoro di nonsense ma pure di feroce satira della società vittoriana di fine Ottocento. Sir John Tenniell nelle illustrazioni originali dell’opera e poi Walt Disney nel celebre film d’animazione la rappresentarono bionda e boccolosa, abbigliata con la gonnellina a ruota e i mutandoni, ma le foto seppiate che Carroll conservava nel suo morboso catalogo di fanciulle in fiore rivelano invece una ragazzina mora e scarmigliata, con un broncio sfrontato assolutamente perfetto con il carattere ribelle che lo scrittore aveva immaginato per la sua eroina letteraria.

Alice femminista contro il patriarcato
In realtà, il femminismo di Alice non è un dato acquisito ma anima una diatriba critica irrisolta. Le studiose Judith Little e Megan Lloyd ne celebrano l’infantile audacia: curiosa e impaziente, Alice osa disobbedire alle regole patriarcali che impongono alle bambine (e poi alle donne) di essere sempre graziose, rispondere solo se interrogate e approvare ogni affermazione degli adulti (leggi maschi, ovvero quelli che detenevano il comando). Non è un caso se nei romanzi (scritti da Carroll, un uomo) la piccola si rapporta quasi esclusivamente con interlocutori maschili, peraltro del tutto stralunati. Nonostante siano folli in modo evidente e conclamato, il Cappellaio Matto, il Bianconiglio, lo Stregatto e il Cavaliere Bianco si rivolgono ad Alice con tono saccente e l’arroganza di chi gode di una posizione di superiorità. La trattano come un’incapace, le danno ordini a bacchetta e quando lei replica la liquidano come una stupidina. Alice però non si lascia intimorire e alla fine è lei a condurre i giochi, non solo in senso figurato: aggredita dall’esercito della Regina Rossa getta via senza paura i fragili soldati – “non siete che un mazzo di carte”. La Regina Rossa, già. Il fronte radicale non accetta Alice come icona femminista proprio perché le uniche donne della storia sono personaggi terribili ed evocano la più becera misoginia. La Regina di Cuori è dispotica, capricciosa e con il vizietto di tagliare teste; la Regina Bianca è svampita; la Duchessa un’ipocrita baciapile pronta a cambiare bandiera a convenienza. La caratterizzazione di sovrane mostruose, carica d’ira e assetate di sangue, in particolare, sembra avvalorare una subdola tesi di degenerazione femminile: le donne sono creature amabili solo nei loro ruoli di cura della casa e della famiglia – al potere diventano infernali. Soltanto Alice (che sarà incoronata nella scacchiera di “Attraverso lo specchio”) fa eccezione restando orgogliosamente se stessa, fulgida regina di un pioneristico girl power.

Corpo, appartenenza e identità
Carina Garland aggiunge una nota sulla questione sessuale. Alice non è ancora una donna e nella fiaba il suo corpo subisce molti cambiamenti: diventa gigantesca e piccolissima cambiando misura come un cannocchiale, piange un mare di lacrime da crisi ormonale, si ritrova parata a festa con scettro e corona come in certi festeggiamenti per l’arrivo del menarca. Queste variazioni fisiche - dunque intime e personalissime - le sono suggerite da figure maschili bizzarre ma convintamente assertive. L’allusione alla corporeità che non appartiene alla donna è vaga ma plausibile. Qualcuno ha addirittura visto nel fungo che il Bruco le propone di mangiare (“un lato ti farà crescere e l’altro ti farà abbassare”) una metafora della sottomissione femminile all’uomo.
Un endorsement pieno all’Alice femminista arriva però dal cinema. Tim Burton vede Alice come una guerriera che rifiuta le nozze per inseguire il suo lieto fine, disdicevole per l’epoca – e infatti scandalizzerà tutti lasciando il fidanzato durante la festa organizzata per la “proposal” ufficiale di matrimonio. La madre vedova le ricorda che solo un uomo, sposandola e prendendone sotto la sua protezione, potrà salvarla da una vita di miseria. Ma il sogno di Alice è un altro: sulle orme del padre lei vuole diventare capitano di vascello e girare il mondo per mare. Continuando a credere ogni giorno in almeno sei cose impossibili prima di colazione.
Una cosa è certa: nei romanzi di Carroll la personalità di Alice è così dirompente da spingere gli adulti a correre ai ripari con la repressione. La vivace ragazzina alle filastrocche da recitare a memoria preferisce però l’insegnamento dei matti. Partire dal principio e alla fine fermarsi. La meta dipende da dove vuoi andare. Ma soprattutto mi piace citare la riflessione su azioni, conseguenze e maturità. “Ieri ero una persona diversa, ma non posso più tornare a ieri”, commenta Alice, travolta dalla fatalità del panta rei, sconfortata dopo l’amnesia della tavola pitagorica, pensando con angoscia di essere stata scambiata con una compagna di scuola somara. Parlando di 8 marzo, questa considerazione io la lego al peso degli errori, brucianti sulla pelle delle donne e condannati nel modo più duro e inappellabile dalla società. 

Eva contro Eva, divide et impera
Nessuno dovrebbe perdonarci, se non le vittime dei nostri comportamenti, se esistono. Invece la sanzione per gli sbagli delle donne è un fine pena mai. E quando le vittime siamo noi, ci viene persino accollata una subdola corresponsabilità. E’ il victim blaming, che in italiano si chiama rivittimizzazione: quando dicono che ce la siamo cercata ma anche che sì ok, il violento è stato una merda ma la vittima poteva stare attenta, lei è stata una cretina. Un florilegio completo di giudizi che massacra personalità e dignità con feroce supponenza. Come si fa a mandare foto di nudo a uno conosciuto su internet; bisogna essere deficienti a dare soldi a un contatto social; se vai a una festa dove circola droga e gli ospiti sono marpioni abituati a scopare in giro con le ragazzine vuol dire che la situazione non ti dispiace e non sei una santarellina – se subisci violenza era un rischio che avresti dovuto mettere in conto frequentando simili ambienti. 
"Eva contro Eva", il capolavoro di Joseph Mankiewicz, ci ha scolarizzate. Abbiamo tristemente contezza del fatto che la rivittimizzazione arriva non soltanto dagli uomini ma è soprattutto una micidiale, taglientissima arma delle donne contro altre donne. Nel segno della competizione con in palio il consenso maschile. Fa male ma lo sappiamo già: troveremo sempre l’ancella di turno pronta ad elargire una giustificazione agli stupratori, agli adulteri, agli assassini. 
Ultimamente però ho visto emergere anche una profonda divisione all’interno dell’attivismo femminista. Liberali contro radicali, vecchio scontro. E l’astioso, nuovissimo fenomeno della contrapposizione tra donne geneticamente tali e donne come condizione di genere – ovvero le trans o le MtF operate. Le femmine per natura, rivendicando vagina e utero di nascita, rifiutano di includere nella comunità (e nella battaglia) le femmine per correzione ormonale e chirurgica. Queste RadFem accolgono tra loro, paradossalmente, le donne divenute uomini ma non il contrario. Sono le militanti del Terfismo (Trans-exclusionary radical feminism) e mi interessa poco qui, in questa riflessione, se si tratti di transfobia. Piuttosto, ho letto commenti odiosissimi scagliati tra le due trincee e ho visto grafici agghiaccianti dove le operate sono ritratte attraverso icone in cui, a fronte della vagina ricostruita e del pene che non c’è più, appare la fluttuazione interna degli spermatozoi. Mi sono chiesta come starei io a vedere queste immagini se, superando pericoli e paure, affrontando spese e ostacoli burocratici, finalmente fossi diventata femmina come sempre mi ero sentita pur avendo un organo maschile, per me sbagliato. Credo che quelle immagini, ricordandomi che dentro sono ancora maschio, mi avrebbero umiliata e demolita. 
Ma è la verità dei fatti, dicono le Terf. Siete nate maschi e per la natura lo rimarrete per sempre. Certo, non giusto. Io sono convinta che sventolando trofei personali non si vincono le guerre, mai. Soprattutto se, accecate dalla nostra lotta nel fango, perdiamo di vista il vero nemico per spostare la guerra nei piani bassi, tra i poveri. No, le guerre si vincono avendo a disposizione più soldati possibili. In fondo siamo tuttE nelle stessa barca e non ha davvero senso combatterci a vicenda. Cadiamo ingenuamente nella stessa trappola delle ancelle: il patriarcato beneficia a costo zero di questo “divide et impera”. 
E poi così mostriamo un volto cattivo ed emotivamente ottuso che come donna non mi apparterrà mai. Non so se questo è un pensiero antifemminista, ma io una differenza rispetto ai maschi la rivendico fieramente ed è quel tipo di sensibilità innata nel femminino. Se hai il pene a questo giro non ce la puoi fare, mi dispiace. Quindi no, non mi piace ed è maschile-patriarcale nel senso più detrivo l’estromissione di qualcuno a causa delle sue caratteristiche genitali: in una parola, è sessismo e io non lo praticherò mai. Nemmeno contro i maschi. 
Ecco un altro mito femminista che ci si rivolta contro. Loro – non maschi ma Uomini, in realtà – fanno parte assolutamente della battaglia. Divisi sui bastioni non andiamo da nessuna parte. E so bene quanto sia difficile per un maschio capire tutto quello che subisce quotidianamente e atavicamente una donna. La maggior parte degli uomini va educata, e spesso si fallisce. Molti fingono per poi rivelarsi biechi e oppressivi. Tutto vero. Ma penso che si debba tentare, che valga la pena. Non mi piace un mondo dove un sesso governa sull’altro, neanche se un giorno finalmente al potere ci fosse il mio. Mi piacciono la solidarietà e l’amore, cose che non si fanno stando separati, mai. 
Mi piace il Cappellaio Matto insieme ad Alice. Forse perché sono pazzi, chi lo sa. Ecco, la chiave di tutto è proprio nella dichiarazione cult-pop dello Stregatto: non ti affannare a trovare una strada perfetta, qui siamo tutti matti. Spesso il pazzo è semplicemente una persona diversa da noi. E ne abbiamo paura.
Ascoltando a scuola una lezione sugli stilnovisti ho pensato a quanto sia cambiata la visione femminile da parte degli uomini: secoli fa ci cantavano come angeli, morivano d’amore aspettando un nostro sì, ci consideravano scale per arrivare alla gloria di Dio. Poi si sono accorti che non siamo eterei simulacri ma persone, e oggi ci odiano, ci violentano, ci uccidono. Siamo diverse – da loro, da come ci vogliono, da come li avevamo abituati - e facciamo paura. Quando rifiutiamo il dialogo credo che, dietro ogni spavalderia rabbiosa, in fondo riveliamo pure noi donne nient’altro che paura. 
Però siamo tutti pazzi e spero che un giorno riusciremo ad essere uniti e rispettarci, ognuno com’è. Cara Alice, questa è una delle mie cose impossibili a cui credere ogni mattina prima di colazione. 

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