Pieces of a Woman


Un film costruito unicamente sulla bravura di un attore è di solito destinato al fallimento. Non può bastare e i registi che invece lo pensano tradiscono un immaturo narcisismo, facilmente smascherato dallo spettatore. Ma non è il caso di “Pieces of a Woman”, il bel film dell’ungherese Kornél Mundruczó con Vanessa Kirby, folgorante nel ruolo di una donna che vede morire la figlia pochi attimi dopo la nascita.

Kirby, già vincitrice della Coppa Volpi all’ultima Mostra del cinema di Venezia, è tra le favorite come miglior attrice protagonista agli Oscar, e la sua interpretazione è perfetta in modo plebiscitario. Favorita pure da una bellezza hitchcokiana algida e insieme nuda, trasparente – potrebbe recitare anche usando soltanto gli occhi. Mundruczó sembra averla dipinta al centro della scena per poi completare il resto del quadro attorno a lei. Ma non è astuta deresponsabilizzazione, semmai il contrario. La storia (scritta con l’ex moglie Kata Weber) ha una sua forte autonomia, così come gli altri personaggi, che per una precisa scelta sono assorbiti dal personaggio tragico di Martha, una mater dolens ancestrale, evocatrice con potenza quasi distruttiva delle tormentate antinomie della maternità stessa.

Martha ha deciso insieme al compagno Sean (Shia LaBeouf) di partorire in casa ma quando entra in travaglio la sua ostetrica è impegnata con un’altra paziente e al suo posto manda Eva, levatrice esperta che però non riesce ad evitare che la bambina appena nata muoia per arresto cardiaco. Il trauma della perdita colpisce Martha ottundendola: la donna decide di donare il corpicino della figlia alla scienza medica e si trascina assente in uno stato di choc, cancellando con cruda efficienza ogni traccia della bambina. Né sua madre Elizabeth (Ellen Burstyn, straordinaria) né Sean le permettono di elaborare il lutto. Il compagno, a cui si nega sessualmente, finirà per tradirla, mentre la madre è ossessionata dal processo penale contro l’ostetrica, accusata di una negligenza nel condurre il parto, fatale alla piccola.

Per tutto il film vediamo Martha soffrire da sola e attraversare fasi di negazione, rabbia e infine consapevolezza. Una pellicola di colori freddi e opachi, di ombre, con l’unica eccezione della luminosità rosata e febbrile nell’episodio del parto.
E c’è un netto confine tra uomini e donne. Sean si deprime, ricade nella tossicodipendenza, sfoga su Martha una rapacità sessuale che sconfina nella violenza prima di abbandonarla durante il processo, sobillando il sospetto che la colpevole del dramma sia lei, testarda nella decisione del parto privato tanto da non chiamare l’ambulanza neanche quando il battito della nascitura aveva iniziato a perdere colpi. Ed è come dire che dopo la morte di un figlio le donne vanno fino in fondo alle viscere della sofferenza, mentre l’uomo se la strappa di dosso, espelle le scorie emotive, gratta via le cicatrici. Le donne ricordano tutto nella carne, nello modo parallelo in cui gli uomini dimenticano.
Altrettanto rivelante, per chi ancora non l’avesse mai sperimentata, è la divisione tra le donne – non unite dalla comunanza biologica e dal funzionamento del corpo, mai dalla condizione di perenni imputate. In una delle scene più belle del film – una prova attoriale a due che fa balzare il cuore nel petto – Elizabeth ritorna figlia per magnificare l’impeccabile sacrificio della propria madre nel darla alla luce e rimprovera Martha di non essere stata in grado di partorire nel dolore, come si richiede atavicamente a tutte le donne.
Tecnicamente Mundruczó, qui al suo debutto in lingua inglese, prodotto da Martin Scorsese e sotto l’ala protettrice di Netflix, divide il film in tre parti. La sezione centrale (quella del lavoro di sceneggiatura “sporco” necessario per accumulare informazioni sugli eventi del plot e fare da collante tra i due grandi picchi drammatici) è una pausa discreta tra l’incipit al cardiopalma e la grandiosa scena finale dove Martha capisce cosa è davvero accaduto nelle terribili ore del parto finito in dramma.
Il parto, appunto, che merita una nota a sé. Una piaga pulsante, lo si avverte con chiarezza. Mundruczó ne fa un lunghissimo piano sequenza di ventitrè minuti che è inquietante presagio, stillicidio, discesa nell’abisso dell’inevitabile sciagura. E’ un’immersione spietata nel corpo di Martha, squassato dalla violenza delle contrazioni, e poi tremante nel terribile passaggio dalla gioia pura della nascita (unico momento del film in cui Kirby sorride) al vuoto della morte. Questa cronaca puntuale e lucida di un dolore destinato a dannazione eterna è offerta allo spettatore così come arriva dall’esperienza realmente vissuta da regista e sceneggiatrice all’epoca del loro matrimonio. Come per ogni autonarrazione, il risultato che si ha in testa (e nella memoria) è arduo da raggiungere: sono serviti due giorni di riprese prima di convalidare la scena.
Martha si avvicinerà alla serena accettazione della realtà – la sua resa dei conti nella testimonianza al processo, altro mirabile banco di recitazione per Kirby – allentando i legami con l’umanità in favore di una fuga naturalistica. I cristalli di neve sul viso, i semi di mela covati con infantile e fiduciosa aspettativa nella vita, il vento e le ceneri sparse nell’acqua la pacificano con la sua nuova identità.
Per diventare madre basta un istante, da allora lo si sarà per sempre. Il rancore e la vendetta sono estranei a questo stato di grazia e persino alla ferita dell’abbandono – se si riemerge qui, non possono più attecchire. L’epilogo del film è una ricompensa di questa sofferta rinascita, e di nuovo, come una divinità tutelare, a celebrarla è la natura. Dove tutto germoglia, si consuma e rifiorisce.

Commenti

  1. L'amore di una donna saggia può salvare un uomo dal suo complesso di inferiorità. È così che succede nei film https://cb01nuovo.net

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