Il Nostos di Giancarlo Cauteruccio

 


Questa mia intervista a Giancarlo Cauteruccio è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud




Forse è arrivato il momento giusto per accendere il magnifico ponte di luce sullo Stretto, il progetto che il regista e drammaturgo Giancarlo Cauteruccio sogna da trent’anni. L’artista originario di Marano Marchesato, fondatore della compagnia Krypton, ricercatore avanguardista che sul palcoscenico per primo sperimentò la commistione tra il dialetto e le tradizioni calabrese e le tecnologia, compie oggi un’operazione inversa a quella di cesellatura artistica del Manzoni. Dove il grande scrittore lombardo era andato a risciacquare in Arno la lingua dei Promessi sposi, Cauteruccio invece dice addio a Firenze e viene a ritemprarsi - e creare - sulle native sponde calabresi.
E’ tornato in Calabria dopo quarantacinque anni a Firenze, dove ha denunciato una situazione di sofferenza del teatro contemporaneo, seguita da una coda di polemiche. In Calabria siamo più “avanti” dei toscani?
«Le mie dichiarazioni hanno fatto scalpore ma non voglio ridurre tutto alla polemica fiorentina. Sono andato via dalla Calabria da diciottenne, nel 1975: e la mia formazione si era avviata qui nella mia terra, dopo il liceo artistico con le prime mostre giovanili ma certamente poi si è sviluppata fuori regione, permettendomi di essere tra gli artefici della ricerca teatrale in Italia. Adesso che sono alle soglie dei 75 anni questo è il mio Nostos. Il ritorno per me è una necessità di vita. Ho sempre mantenuto un rapporto importante con la terra madre, sia sentimentale che artistico. Sono stato il primo a trasferire la lingua calabra nel teatro italiano e anche all’estero: ho portato il nostro dialetto a Mosca con uno spettacolo su Pitagora che è piaciuto molto ai russi, dove il prologo era recitato in calabrese. Ho mantenuto vivo un punto di osservazione sulla mia terra, che sento fonte costante di energia. Questo legame non si è mai interrotto, ho sempre avuto il desiderio di tornare. Nella mia maturità vorrei ora restituire alla Calabria il sostegno che le radici mi hanno offerto nel mio vagare come sperimentatore. E voglio farlo collaborando con i cittadini, lavorando con e per loro. Volutamente non intendo il pubblico, che è una categoria, ma i cittadini, intesi come protagonisti dei luoghi».
Con Firenze però il caso c’è stato. Nella sua conferenza stampa di commiato e in varie interviste lei è stato molto duro verso le scelte delle istituzioni teatrali toscane.
«Ho appena spiegato che il ritorno in Calabria ha motivazioni profonde, al di là della situazione a Firenze. Ma, certo, sulla mia decisione hanno avuto un peso anche altre componenti. Una di queste è che a Firenze sentivo di non trovare più risposte al mio progetto artistico e non è un’idea soltanto mia, la condividono molti artisti. Non volevo creare un caso, ma riflettere sui motivi per i quali una città come Firenze in un certo senso obbliga gli artisti ad andare via perché lì non trovano più interlocuzione. Il teatro fiorentino è diventato un mondo chiuso. Nonostante le mie proposte, ho capito di non poter dare continuità a quello che avevo imparato e che avrei voluto trasferire alle nuove generazioni. Ma, ripeto, la mia decisione non è stata una mera reazione a qualcosa. Oggi sento che i nodi sono arrivati al pettine nella società, nella mia vita. E un’altra componente decisiva è stata il Covid».
Il Covid ha influenzato questo cambiamento radicale che la riporta in Calabria?
«Il Covid ha fatto palesare un punto zero della nostra epoca, che si estende anche all’arte. Negli ultimi anni la civiltà occidentale ha raggiunto estremismi esagerati, e il teatro, in particolare, ha perso il senso della qualità a favore esclusivo della quantità. L’Italia è da tempo uno spettacolificio che sforna continuamente lavori non sempre giustificabili: si produce moltissimo e male. Una parte di colpa ce l’ha il sistema, che chiede agli artisti di fare tanto e a gran velocità. Invece dovrebbe essere il contrario: i progetti teatrali hanno bisogno di tempi lunghi, di sedimentazione. Se ci facciamo caso, oggi gli artisti dicono “sto lavorando a una nuova produzione” - nessuno parla più di creazioni, no, soltanto prodotti. La creazione è tutt’altro, è una ricerca scientifica, non sai quando e come raggiungerai il risultato a cui tendi. Per me tornare a casa, alle origini, significa poter avviare un progetto nuovo immaginando una condizione post Covid fondata sul rapporto tra natura e tecnologie. Il materiale da usare c’è ed è nuovissimo. Durante il lockdown ho osservato con stupore le persone ai balconi con le bandiere, i canti spontanei… è stata una sorpresa. Sta cambiando tutto e va eliminato il concetto di tornare a quello che era prima, sarebbe impossibile. Dobbiamo costruire, non ricostruire. Nascere, non rinascere».
Parliamo del Nostos. Il cordone ombelicale con la Calabria per lei è stato la lingua – potente, evocativa, trasversale.
«Il mio legame con la lingua non è un fatto estetico ma un fattore di vitalità e forza - necessario per uno sperimentatore. Nell’arte ho portato avanti una ricerca complessa, affrontando l’ardua impresa tematiche di innestare la tecnologia nel linguaggio antichissimo del teatro. Chi compie una sfida ha bisogno di solidità e le radici aiutano a non perdersi, perché tengono saldi. Poi la Calabria ha in sè il valore del mito con la sua capacità di tradurre la condizione postmoderna, di ispirare il teatro come indagine sull’esistenza umana. Sono stato straniero, condizione fondamentale dell’artista, ma non ritorno con la nostalgia degli anni trascorsi - come accade a chi rientra nella terra natia dopo molti anni. No, io sono ritornato con una grande gioia di lavorare e vivere qui».
Cosa farà adesso in Calabria?
«La mia idea è allestire un teatro dei luoghi. Da calabrese per me la natura rappresenta la Calabria stessa, con la sua bellezza naturalistica ma anche le criticità di cui sono consapevole. Ma non ho smesso di amare le sfide e mi piacerebbe valorizzare questo territorio ideale, naturalmente vocato al teatro. L’esperienza con il Magna Graecia Teatro mi ha permesso di conoscere bene l’archeologia calabrese, che è diversa da ogni altra perché è fatta di tracce che si mettono significativamente in relazione con la progettualità contemporanea. Inoltre, tutto il nostro paesaggio, dal mare alla montagna, si presta ottimamente a quello che voglio fare. “Nel canto della balena bianca”, lo spettacolo di Krypton ispirato a Moby Dick, c’è il rapporto tra uomo e la natura. L’ho definito un laboratorio per il riconoscimento del limite umano perché in questa relazione l’uomo non ha capito nulla. Moby Dick è un animale enorme, con un terribile movimento della coda può distruggere una nave, ma agire così non è nella sua natura: è stato l’uomo a volere lo scontro e generare questa reazione. Franco Battiato dice che la natura è perfetta. Ma l’uomo non lo accetta perché ambisce a quella perfezione, vorrebbe superare la forza della natura, come il capitano Achab.»
I luoghi possono avere un ruolo cruciale in questa lunga serrata dei teatri chiusi…
«Certamente, ma non è un problema solo di oggi. Non dimentichiamo che già prima del Covid da molto tempo i teatri perdevano pubblico, un pubblico che si sentiva maltrattato e lentamente si è spostato verso altri interessi, ha abbandonato la socialità. Si faceva fatica a riempire i teatri, se non attirando gli spettatori con i personaggi popolari del momento. Eravamo in presenza di un abbassamento del livello culturale e per cambiare questo occorre partire da zero - a maggior ragione con il Covid. Quando parlo di teatro dei luoghi vedo anche la possibilità di coniugare spettacolo dal vivo e reti telematiche, che non significa semplicemente riprendere uno spettacolo e poi mandarlo in tv. Questo genere di intervento sarebbe sbagliato, distruttivo del rapporto profondo di simultaneità tra pubblico e artista, che è centrale nel teatro. Il teatro è il qui e ora, sono le emozioni che uno spettacolo riesce a trasmettere in chi lo guarda nel momento in cui si svolge. il teatro senza pubblico non esiste, è impensabile. Ho realizzato spettacoli anche in video, è capitato che mi siano stati chiesti, ma si tratti di studi, non opere. L’opera per essere tale ha bisogno di uno spazio e dell’interazione con lo spettatore».
L’assenza di teatro ha tolto tantissimo all’anima e alla mente. Qualcuno ha però instillato il dubbio che il teatro manchi soltanto ai professionisti del settore ma non al pubblico, ormai appagato dalle serie tv. Lei è d’accordo?
«La raffigurazione di un settore messo in ginocchio è in realtà un falso problema per lo spettacolo. E’ chiaro che la riduzione del lavoro oggi pesi di più, ma non si può fare un parallelismo con gli altri settori produttivi. Ristoratori o commercianti, ad esempio, stanno subendo un danno realmente grave, molti rischiano di morire di fame. Invece il settore dello spettacolo coinvolge grandi numeri di lavoratori e maestranze solo in alcune situazioni specifiche, come quella degli enti lirici. Per il resto, il teatro vero è fatto nei territori e il suo problema principale non dovrebbe essere quello economico ma la perdita della sua vitalità. Un rischio tangibile, che può scongiurarsi attraverso una condizione nuova, partendo dal confronto e la discussione tra gli artisti».
In questi anni ha trovato interessante il lavoro delle compagnie teatrali calabresi?
«Ho grande stima di Scena Verticale e di Saverio La Ruina, del resto il loro lavoro artistico è già da anni riconosciuto e premiato a livello nazionale. Ricordo di aver trascorso, in un’estate a Castrovillari, una notte intera a parlare con La Ruina della mia visione di teatro nuovo e di come si possa attuare in Calabria. Ma sono certo che ci sono molti altri artisti validi, io non li conosco perché sono stato fuori per anni e ho avuto notizia solo delle compagnie che avevano risalto oltre i confini calabresi. Adesso però mi piacerebbe coinvolgere tutti gli artisti del territorio in percorsi che non guardino solo alla messa in scena finale ma elaborino processi creativi, comprendendo cosa può nascere qui di innovativo. Con l’obiettivo di trasferire il risultato in Italia e in stati stranieri – l’ho già fatto con lo spettacolo “Filippo Brunelleschi/nella divina proporzione”, vincitore di un bando della Farnesina per promuovere l’italianità all’estero. Cito questo spettacolo perché lì da un impianto tradizionale si arrivava a un perfetto equilibrio di reale e virtuale e questo è il punto di partenza di quello che voglio fare».
Cosa ne pensa delle installazioni d’arte che nell’ultimo decennio hanno contaminato il territorio calabrese, le piacciono le sculture di Tresoldi a Reggio e Pizzo?
«Assolutamente sì, sono opere che dimostrano come la grande storia di questa terra possa essere tradotta in una realtà contemporanea. E’ importante per rielaborare i luoghi in senso innovativo. In particolare le aree archeologiche calabresi sono un terreno molto fertile per questi interventi - penso alle grandi mostre allo Scolacium di Roccelletta di Borgia. La Calabria è un museo aperto e sulle sue radici è possibile fondare nuovi segni».
E’ davvero sicuro di voler tornare a lavorare in un ambiente litigioso e divisivo come quello del teatro calabrese?
«Il mio sogno, il grande progetto che voglio realizzare, è qualcosa che non divide ma unisce. E’ un ponte di luce sullo Stretto e a quest’idea penso dal 1985, quando ne parlai per la prima volta con l’allora sindaco di Messina, eravamo al festival di Taormina. Questo ponte tra Scilla e Cariddi, costituito da luci laser, è il risultato finale di un progetto che si sviluppa tra le due sponde all’interno di laboratori di ricerca e vorrei farlo in collaborazione con le facoltà di architettura di Palermo e Reggio. Ho pensato a un kolossal teatrale che si tenga una volta all’anno, sempre nella stessa data ma con contenuti diversi, su due grandi palcoscenici in Calabria e Sicilia, che dialoghino tra loro simultaneamente tramite un collegamento telematico. Un ponte visivo ma soprattutto culturale».
Qualcuno da anni tenta di costruirne un altro, di ponte sullo Stretto…
«Il mio ponte trasporterà tutte le energie del mito che vivono da millenni in questi luoghi, dove nacque la fondazione di una grande civiltà. Quell’altro tipo di ponte per me è inutile, le vie di comunicazione che abbiamo ci bastano, non credo serva far passare i treni sopra lo Stretto. A me interessa che tra le due sponde passi l’immaginazione».







 

 

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