Chiara e gli Slegati
Chiara Gamberale possiede un radar sentimentale per gli Slegati. Quelle vibrazioni le ha riconosciute anche in Raffaella Carrà e Sergio Japino, postando su Facebook, in ricordo della grande soubrette, ciò che il coreografo diceva di sé e della sua storica compagna: “Siamo legati nell’anima, siamo più che fratelli, abbiamo lo stesso sangue; una normale storia d’amore è molto piccola rispetto a quella che viviamo noi”. Dunque gli Slegati, che la scrittrice romana ha raccontato in una serie di podcast per Chora Talks, sono in realtà persone legatissime. Incasellarli nella definizione di amori folli sarebbe infantilmente pittoresco. Del tutto off topic, poi, buttar dentro le immancabili categorie di narcisismo e dipendenza affettiva. No, gli Slegati sono complici esistenziali, alleati di corpi e spirito. Amanti e amati su traiettorie di vita fuori dal comune, eppure semplicemente testimoni di verace umanità, denudata dalle convenzioni.
L’amore è tema privilegiato per Gamberale, che da tempo lo indaga in libri, televisione e giornali (la sua rubrica “Parlane con Chiara” su Donna Moderna, erede delle letterarie poste del cuore, è un interscambio di emozioni senza formalità). Ma com’è giusto che sia, non è mai riuscita a spiegarne il mistero – il bello della faccenda è proprio questo. E Chiara non si sottrae, anzi partecipa. Da donna e madre, tra gli Slegati c’è anche lei insieme a genisoli, ricercatori del poliamore, separati in casa, asessuali e amanti cronici. La scrittrice si è già messa in gioco con il suo privato nel romanzo “Come il mare in un bicchiere”, narrando l’esperienza del suo lockdown; ancora prima, in “Per dieci minuti”, aveva condiviso con i lettori una reale attività psicanalitica per risorgere dopo una crisi inventando spazi minimi di azioni nuove, sfide abbordabili per attraversare a piccoli passi il buio verso la luce.
Con gli Slegati c’entra quasi sempre l’amore. Il loro universo è un limbo tra solitudine e relazione, dove si desiderano entrambe ma al contempo fanno paura. Indecisi e passionali, avidi di tutto e niente. Sono uomini e donne che all’amore chiedono troppo o forse troppo poco.
Presenti gli Slegati come abitanti di una terra di mezzo dei sentimenti, opposta alla rappresentazione binaria di “coppia” e “single”. Sappiamo che i rapporti atipici sono sempre esistiti ma restava tutto nel segreto. Adesso invece gli Slegati hanno voglia di raccontare il loro mondo e scopriamo rodaggi sofferti ed equilibri affettivi anomali, voluti e mantenuti ad ogni costo. La reazione sociale rimane di critica e persino fastidio – sempre meno per un giudizio sulle scelte, piuttosto perché si ritiene siano situazioni intime. Come contemperare la scoperta di questa umanità clandestina senza sortire l’effetto opposto di una overdose di vite altrui?
«Che bella, importante domanda. Il tono che io ho desiderato avessero le mie chiacchierate con gli Slegati, dal primo all’ultimo episodio, non a caso è un tono confidenziale, il podcast è stato registrato a casa mia proprio per sottolineare l’idea alla base del progetto: la possibilità di raccontare storie, scelte, visioni della vita e contraddizioni senza il bisogno di urlarle. Perché la vita a cui il fisico emotivo di ognuno di noi ci chiama non è una provocazione: semmai è una vocazione».
C’è una storia che ti è rimasta maggiormente dentro?
«Tutte: lo dico fuori da ogni retorica. Ognuna mi ha toccato un nervo scoperto, perfino la più lontana da me a livello biografico, la vitale e irresistibile Serena Arderlini, che ci ha fatto da guida sentimentale nell’universo del poliamore, mi ha portata a farmi delle domande di cui mi ero dimenticata di avere bisogno. Per analogia o per contrappasso, insomma, ho sentito ogni storia come mia».
Hai sempre dialogato con garbo e assenza di giudizio, raccogliendo le varie confidenze. Ma molte vicende coinvolgono temi sensibili – penso al poliamore, che alza barricate granitiche e inespugnabili tra chi lo considera evento sublimatore della coppia e i puristi dell’amore esclusivo; o alla situazione degli amanti extraconiugali, che rimanda ad atavici cliché su donne e uomini. Oltre il ruolo di intermediaria-narratrice, ti è capitato di pensare “ok, loro dicono di essere felici ma così io non potrei mai”?
«No, sai? Neanche di fronte ad Alice che non sente attrazione fisica per le persone di cui si innamora e rivendica il fatto che quella dell’asessualità sia un orientamento sessuale, non una patologia. E’ che proprio io non sono abituata mai a giudicare chi ascolto, chi ascolto, sono troppo interessata a capire, a scoprire se magari, appunto, in un modo di vivere diverso dal mio, può nascondersi un’indicazione, un consiglio che può riguardarmi…Per riuscire ad accettarmi sempre un po’ di più, continuando però la battaglia contro quello che di me ho la speranza di poter cambiare».
Quanto ti senti - o ti sei sentita - anche tu slegata?
«Io credo di essermi sentita slegata da quando ho memoria di me che su di me cominciavo a riflettere…Anche in tutti i miei romanzi racconto di persone così, che hanno tanta voglia quanta paura di una relazione intima e profonda e soprattutto nell’ultimo, che ho appena finito e uscirà a fine ottobre, consegno molte delle mie fragilità e delle mie domande ai protagonisti, provo ad andare fino in fondo al loro smarrimento, dove tutto è cominciato: nel rapporto con quell’uomo che chiamiamo papà, quella donna che chiamiamo mamma».
I “genisoli” crescono un figlio senza essere coppia e tu rifletti se non siano più saggi dei genitori chiusi in una coppia disfunzionale che edificano famiglia su dinamiche tossiche. Ma in fondo anche così l’obiettivo sono sempre gli altri (i figli). Diventiamo responsabili di una vita e prima o poi siamo braccati dal diktat doveristico secondo cui bisogna annullare aspirazioni e individualità per conformarsi all’unico modello di famiglia accettato come educativo e sano. Prima di cambiare il mondo, forse dobbiamo cambiare noi. Non credi che il senso di colpa personale e la paura del fallimento genitoriale siano più dannosi del pregiudizio e le imposizioni sociali?
«Certo, hai ragione. Io sono madre da quasi quattro anni e ancora non ho capito che cosa significa essere madre di Vita, mia figlia, figuriamoci se ho capito che cosa significa essere madre, in generale. E’ una ricerca continua. Dove, proprio come dici tu, uno degli sforzi maggiori sta proprio nel fatto di traslocare dall’Io al Tu senza che però quel Tu diventi un alibi per farci interrompere la nostra crescita personale, il faccia a faccia con le nostre contraddizioni, i nostri desideri. Dobbiamo farlo, credo, soprattutto per loro, i nostri figli. Essere l’unico motivo di gioia o di dolore per una madre credo possa rivelarsi nel tempo un peso insostenibile. Me lo ripeto ogni giorno, perché per me la tentazione di sciogliermi nella dedizione per Vita è fortissima».
Con i podcast e poi la lezione d’amore per Feltrinelli stai portando avanti una nuova forma di comunicazione. Il libro ha una fruizione solitaria, la multimedialità permette di interagire. Non è che il pubblico attuale ha bisogno di uno scambio diretto con lo scrittore e si sta allontanando dalla lettura “classica”?
«La radio ieri e oggi il podcast mi permette di sperimentare nuove forme per fare quello che più mi piace, conoscere e scambiare emozioni, visioni… Ma la scrittura per me è l’unico rimedio che ho trovato all’esistenza: mai l’abbandono, mai mi abbandona, in niente credo come nel potere delle storie e nel legame (l’unico di cui non ho paura, solo voglia!) fra chi una storia la scrive e chi quella storia la legge».
Essere slegati è uno scudo contro le difficoltà dei rapporti amorosi o una peculiarità? Intendo: siamo tutti slegati per natura, o lo diventiamo solo come effetto di delusioni, instabilità subìte, insoddisfazioni?
«E chi lo sa. Al protagonista di ogni episodio lo chiedo: ma slegati si nasce o si diventa? Ma mettendo in fila tutte le loro risposte, come sempre, va a finire che si moltiplicano le domande».
E’, ogni volta, questione d’Amore, a cui nessuno di noi sarà mai capace di tener testa. Un meraviglioso Slegato, sir William Shakespeare, scrisse che “essere saggi e amare eccede le capacità dell’uomo”.
BOX
Tutta la produzione letteraria di Chiara Gamberale è attraversata dall’introspezione nei sentimenti, sin dall’esordio con l’emozionante romanzo “Una vita sottile”, dove la protagonista della storia soffriva di disturbi alimentari, situazione vissuta personalmente dall’autrice. Opera spartiacque verso l’attuale indagine della scrittrice sulle sfaccettature più insolite dell’amore è “Le luci nelle case degli altri”, edito da Mondadori. Una storia affollata di “slegati”. In un condominio cittadino – sito in via Grotta Perfetta ma molto lontano dalla perfezione - la morte di una donna di cui i vicini conoscevano pochissimo lascia la responsabilità di una bambina rimasta senza madre. Il ritrovamento di una lettera in cui Maria rivela che il padre della piccola Mandorla vive nel palazzo innesca una miccia di sentimenti, sospetti e sensi di colpa: i condomini stabiliscono così che nessuno si sottoporrà al test di paternità e invece si occuperanno insieme della bambina. Ma quando la ragazzina entrerà nelle loro routine di famiglie, coppie e singoli si sveleranno segreti, fragilità e dolori imprevedibili. La trama complessa (su cui fare spoiler sarebbe un delitto) arriva fino all’adolescenza di Mandorla disegnando un racconto corale di esistenze dove l’osservazione è quella delle luci che vediamo accese dentro le case degli altri immaginando cosa accade in quelle vite. Un voyeurismo emotivo che tutti abbiamo praticato almeno una volta per sentirci meno soli e disperati. Nonostante molti personaggi soffrano di carenze e insoddisfazioni, la scrittura di Chiara Gamberale resta lieve e ritrae un’umanità dolceamara, che ricorda quella del cinema di Ozpetek. Come per gli Slegati, facciamo tutti parte di un immenso, vibrante giro di anime e cerchiamo il tesoro alla fine dell’arcobaleno.
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