Tutto ciò che sono



Avvertenza a chi leggerà: qui parliamo di un libro, “Tutto ciò che sono” di Ilaria Di Roberto, ma stavolta l’autrice - che è bravissima e ben merita questo titolo - sarà chiamata per nome, senza il consueto distacco tra recensore e recensito. Perché nella sua seconda opera letteraria, appena pubblicata per Europa edizioni (la prima era stata il monologo poetico “Anima”), Ilaria si rivolge non a semplici lettori ma a tutte le donne come solidali sorelle. 

Non ci sono gradi di separazione e l’esperienza personale vissuta da questa giovane (durissima, quella dell’abuso sessuale, l’anoressia, il cyberbullismo) non la innalza mai in cattedra, non si esprime dall’alto del suo dolore al basso di chi “non puoi capire perché non ti è successo” o “non ti sei ribellata e allora peggio per te”. Snobismi della sofferenza che sono proprio i pregiudizi contro cui lei combatte con rabbia e passione. No, Ilaria non è una maestra di vita ma una ragazza che dona il suo vissuto per suscitare una nuova consapevolezza in chi ancora non l’ha raggiunta e soffre nella sua condizione femminile senza capirne i motivi. 

«Io ti credo, sorella», dice Ilaria nel libro: sa che le donne vittime di violenza non sono prese sul serio e che se sei carina, ami ballare o sorridi, non sei attendibile. Non lo sei perché ancora viva. Se non si finisce cadaveri, bisogna almeno disperarsi, incarnare anche visivamente lo stereotipo della sopravvissuta. Purtroppo Ilaria l’abbiamo già vista così. Attivista oltre che artista, quest’estate sui social, con gli occhi gonfi di pianto, aveva denunciato le ennesime molestie avvenute nella piccola città dove vive con la sua famiglia (un sodalizio forte e amorevole di tre donne guerriere, composto insieme alla madre e la sorella), che hanno riaperto la ferita di quando, denunciando il revenge porn e poi la persecuzione di una setta, si era vista isolata da coloro che considerava amici e bullizzata dai compaesani. Oggi il suo raggiante selfie con il libro tra le mani, lì accanto alle vergognose offese scritte con lo spray da vigliacchi haters nell’androne del suo palazzo, è una vittoria che fa bene al cuore di ogni donna bersagliata da insulti, epiteti volgari, accuse e rivittimizzazione. 

In “Tutto ciò che sono”, Ilaria racconta la sua storia, dai disturbi alimentari e la dismorfofobia, le violenze e la battaglia legale, fino alla psicoterapia, l’illuminante scoperta del femminismo e il rapporto con la scrittura (un colpo di fulmine acceso da bambina). Costruito con uno stile originale - un mosaico di poesie minime simili a haiku, riflessioni, pagine autobiografiche e narrazioni di grande impatto emotivo - il libro è una lunga confidenza senza filtri. Ilaria è una voce vera e si mette a nudo (metaforicamente, precisa lei, che con l’esposizione del corpo non vuole più rischiare equivoci) con coraggio e orgoglio del suo travagliato percorso da ex ancella a donna libera. Additata come aspirante vip in cerca di popolarità, di quei riflettori di maldicenza avrebbe fatto volentieri a meno. Vedendola sulla copertina del volume – rosa shocking, il suo colore preferito – mi ha ricordato una scena del mio film del cuore, “Via col vento”, quando Rhett sfidava Rossella a mostrarsi a una festa dopo lo spargimento di feroci pettegolezzi su di lei: «Entrerai da sola nell’arena, e le bestie sono affamate»

Ilaria conosce questa bruciante sensazione, ma non si è arresa al ricatto della solitudine. Così come non ha mai accettato il condizionamento sociale imposto alle donne. Non occorre essere state stuprate, il perenne giudizio del patriarcato lo sentiamo fiatare sulla pelle ogni giorno, sin dai più piccoli e apparentemente banali gesti di autodeterminazione. Invece noi non possiamo dare nulla per scontato, soprattutto non la libertà. Riprovevole fotografarsi in bikini, inopportuno uscire da sole da sera e persino in abiti succinti, imprudente e da cretine scambiare immagini intime con un fidanzato. Dai corsi di autodifesa alle circolari dei presidi scolastici e i sindaci anti-minigonne, fino ai consigli di mamme, zie e nonne, per non essere uccisa o violentata una donna deve sobbarcarsi l’onere della prevenzione. Perché ci hanno insegnato che l’uomo è animale e tocca a noi tenere a bada la sua natura – e se questo comporta l’obbligo di reprimerci è un prezzo ineluttabile da pagare a fronte del privilegio di restare in vita e tutte intere nonostante la nostra vagina. «Il corpo è mio – scrive Ilaria – posso mostrarlo a chi voglio io; non puoi mostrarlo a chi vuoi tu». Per favore maschi, segnatevelo da qualche parte con l’inchiostro indelebile prima di far circolare tra amici arrapati o ignoti colleghi segaioli la nudità ricevuta come preziosa condivisione intima da una donna che vi ama. Prima di affannarvi a mandare foto del vostro organo genitale a una sconosciuta tra i vostri contatti Facebook soltanto perché ha postato una foto in cui si vedono le gambe. A chi vuole relegarla al ruolo di un’indifesa Cappuccetto rosso, Ilaria contrappone l’energia della reazione, quello che le donne non devono mai osare: «La tana del lupo non la evito, le do fuoco».


“Tutto ciò che sono” (disponibile in digitale e cartaceo nei principali store e attraverso il sito della casa editrice) trasuda intensità, commuove, tocca corde dolenti. Ma non è una lettura pesante, tutt’altro. Ilaria esercita spesso l’ironia, scherzando sull’eterno scontro tra maschi e femmine e divertendosi ad asfaltare il completo campionario di incel, misogini e morti di figa con cui ogni ragazza ha a che fare quotidianamente. La soddisfazione più grande per Ilaria Di Roberto è scoprire di avere anche lettori maschi, nonostante del loro pene in questo volume non si parli con i toni lusinghieri a cui sono abituati…

Così resterai zitella, le hanno detto. «Speriamo – risponde – con lo schifo che c’è in giro». Ma non è del tutto vero, perché la scrittrice svela anche il suo romanticismo quando chiede, forse a un futuro, ideale innamorato: «Scrivimi una canzone e fammi ricordare la bellezza di un abbraccio che mi insegnerà ad amare». Un messaggio che appartiene a tutte le donne deluse, che all’amore non smettono di credere ma non si accontentano più di un amore qualsiasi. Ricordo una compagna di classe in uno stage di formazione, molti anni fa. Mi raccontava della fine di una relazione tossica e spiegava: «Dal prossimo pretendo che faccia tutto l’alfabeto, dalla A alla Z… non accetterò una lettera in meno».
Come scrive Ilaria nel brano che dà il titolo al libro, l’identità delle donne è un universo sfaccettato e ormai siamo stanche di doverci “moderare”, di essere tollerate. Siamo noi, prendere o lasciare: «Sono un ricciolo ribelle, sono ossa e sono pelle… non è un gioco o una scommessa, sono questa, a te la scelta». 
Ilaria è poetessa dei visionari e derelitti, alleata di pensieri folli con Charles Bukowski, del quale nel libro appare, a sorpresa, una dedica in versi. Fu un maschio pieno di difetti il "vecchio sporcaccione", ma non è contraddittorio che una femminista lo celebri, anzi. Quanto le amò lui, nel suo modo irregolare e selvaggio, le donne....

Ilaria grida la sua collera per ciò che la società maschilista infligge quotidianamente alle donne. Urla «chiedeteci scusa» e non teme la verità di affermazioni forti e provocatorie, quali la convinzione che gli uomini, nell’Anno del Signore 2021, sono davvero ancora tutti uguali, contrapposta all’ipocrita scusante del “not all men”. Non teme di dire forte e chiaro che a noi donne capita spesso di odiarli, gli uomini. Per i loro vantaggi e le loro franchigie, per l’onnipotenza attribuita al loro sesso. Per quella giustizia negata secondo cui «serve tanto tempo per punire ma un attimo per morire». 
Nella bellissima lettera alla ragazza con il cappio al collo sopraffatta dalla fame d’amore e tradita da chi pensava l’avrebbe finalmente colmata, c’è l’infinito sgomento dell’irreparabile. Allora sì, Ilaria fa una preghiera alle ragazze “dead walking”, le condannate a morte che si dirigono inermi verso il luogo dell’esecuzione dove saranno loro stesse a premere il grilletto: voi non siete scomparse, vivrete per sempre nella nostra lotta affinché quello che vi è successo non accada più. 
Tutte noi, che siamo ancora qui, sopravvissute e tenaci, abbiamo questa missione. Per provare a costruire quel mondo meraviglioso dove le donne si vestono come vogliono, se sono infelici interrompono rapporti sentimentali, non subiscono corna e botte, non sono calunniate per l’aspetto fisico, ricevono lo stesso stipendio degli uomini e non devono scegliere tra carriera e famiglia. Quel mondo che oggi è considerato “anormale”, diverso dalle vessatorie consuetudini radicate nei modelli patriarcali, e possiamo soltanto immaginarlo. Ma servissero pure altri mille anni, continueremo a volerlo con tutte le nostre forze.

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