Tinto Brass, una passione libera




Questa mia recensione del libro "Tinto Brass, una passione libera in forma di autobiografia", scritto con Caterina Varzi ed edito da Marsilio, è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud

Un diario sincero, scritto con la voglia di riannodare i fili di una vita attraversata dalla pienezza dei desideri. E spudorata, perché i sogni non accettano limiti. Tinto Brass si racconta firmando a quattro mani con la moglie Caterina Varzi “Una passione libera in forma di autobiografia”, in libreria per Marsilio. E’ una lunga confidenza, raccolta da Caterina - oltre che compagna e folgorante musa del maestro, appassionata curatrice dell’archivio del maestro - che in questo libro si dona come uno scrigno prezioso, dove ci sono le donne, il cinema e gli incontri con Fellini Rossellini e Antonioni, il teatro e la politica. «Ho fatto di tutto per realizzare i miei sogni – dice a cuore aperto Brass – e nonostante abbia incontrato mille difficoltà, sono un artista e per questo mi considero un privilegiato».

L’idea di un memoir è nata come urgenza dopo l’ictus che ha lasciato il regista in una grave condizione di disabilità. In una lunga notte solcata dai terribili pensieri del suicidio, a compiere il miracolo furono la voce della moglie e una canzone di Boris Vian che rievocava una passeggiata a due sulle rive della Senna, nella Parigi che per Tinto incarna il genius loci della trasgressione. Della malattia l’88enne Brass parla senza filtri edulcoranti, ma la sua autobiografia non è il testamento di un sopravvissuto. Più corretto definire questa narrazione il ritratto di un uomo che si è salvato e sente il bisogno di imprimere una traccia, di stilare un bilancio di quello che è stato e di ciò che rimane.
Una vita turbinosa e già cinematografica, iniziata in una famiglia italiana degli anni Trenta, polarizzata tra due opposti: la madre, origine della magnetica attrazione di Tinto verso le donne; e il padre severo e fascista, che seminerà nell’animo del figlio il senso di ribellione alle regole e l’impulso per una libertà sfrenata e totale.
Da sempre gli artisti pagano lo scotto dell’etichetta sociale di pazzia: il ricovero giovanile nel manicomio veneziano di San Servolo segnerà l’esistenza di Brass lasciando nei suoi film molti riferimenti della riflessione su follia e disturbi mentali. Del resto la sua stessa opera, da “La chiave” in poi notoriamente caratterizzata da un’impronta erotica esplicita, il suo personaggio dissacrante e il rapporto disinvolto con le attrici lo ha sempre connotato ai confini della pornografia, chiudendogli molte porte negli ambienti snob del cinema autoriale. Nel 2005 Marco Muller, direttore della Mostra del Cinema, pur apprezzando “Monamour” lo escluse dal programma perché il regista, considerato fonte di imbarazzo, non poteva essere ammesso al tradizionale pranzo di ambasciata. Il festival nella sua amata Venezia ha cagionato molti dispiaceri a Tinto, la cui gioiosa ripicca a questo trattamento del silenzio era la parallela sfilata di divette seminude in laguna, che facevano da piccante contorno ai suoi film come evento disturbante del red carpet ufficiale del Lido.

 
Artista incompreso e vituperato, in questa autobiografia si riscoprono (i cinefili li conoscono già, e sono bellissimi) i suoi primi film, dove molto più che il sesso davano scandalo le provocazioni su storia e costume italici. Nel 1963 la pellicola d’esordio, “Chi lavora è perduto”, fu esiliata dalle sale per le scene di nudo e un riferimento all’aborto (l’umiliante colloquio con lo psicologo vissuto nel film dal personaggio di Gabriella al regista era accaduto realmente insieme alla moglie Carla in Svizzera: negata infine l’autorizzazione, dovettero interrompere la gravidanza clandestinamente).
Nonostante l’abrogazione della legge fascista sulla censura (che diede a Tinto l’opportunità di fare ricorso), restava un film troppo pericoloso: quelle immagini erano un maglio di ferro contro i valori della famiglia, la devozione alla patria e il culto religioso.
“I fiumi della rivolta”, documentario sui moti rivoluzionari del Novecento, vedeva invece Brass in sintonia con lo spirito dei ribelli e la rivoluzione come processo liberatorio e di rottura. Ma fu stroncato dalla critica. Secondo Tullio Kezich, Tinto avrebbe fatto meglio a scherzare con i fanti – argomenti così seri non erano roba per lui.
Eppure negli Usa piaceva molto e gli era stata proposta la regia di “Arancia Meccanica”, progetto sfumato perché il nostro era distratto dalla genesi del meraviglioso “L’urlo”, vicenda onirica che demolisce le ipocrisie del matrimonio. Per colpa dello scarso fiuto di Dino De Laurentiis, perse altre due occasioni d’oro, “Nove settimane e mezzo” (per il produttore quella storia di sadomasochismo non se la sarebbe filata nessuno) e l’adattamento del romanzo “First Blood” di David Morrell (idem, a chi importava dei tormenti di un reduce del Vietnam?), che poi sarebbe diventato Rambo.
“Dropout” e “La vacanza” furono un elogio della follia come espressione di libera creatività. Concetto rischiosissimo per le implicazioni sull’ordine sociale, ma su questa ispirazione aleggiava l’ombra di San Servolo: «La mia indole anarchica desidera l’abolizione di qualsiasi autorità costituita e accentrata. Il rifiuto dell’integrazione corrisponde per me alla liberazione da ogni condizionamento». Nel 1971 a Venezia “La vacanza” ricevette fischi e insulti. Durante il linciaggio, la protagonista Vanessa Redgrave non si fece problemi a replicare ai dissensi del pubblico con parolacce, mentre il regista mimava una scoreggia dando le terga agli spettatori.

Qualcuno potrebbe obiettare: possibile che in un libro su Tinto Brass non si parli di culi e tette? Certo che sì, ma qui la banalità non è mai neppure sfiorata. “Coito ergo sum”, sintetizza Tinto ribadendo l’idolatria del culo (curva perfetta, più onesto della fica che mistifica la funzione ludica con quella riproduttiva, e della faccia, che sa fingere e mentire). La passione irrefrenabile per le donne, scoperta prima spiando sotto le gonne delle servette di casa e poi nelle case di piacere, è un manifesto di dedizione assoluta. Gli storici scontri con le femministe – spesso molto aggressivi, Tinto aveva ribattezzato “Evira” la furiosa Banotti che lo colpì con una mitragliata di ghiande - lo hanno marchiato come porco e guardone (il voyeurismo però non lo rinnega, tanto da avergli dedicato il film “L’uomo che guarda”), in realtà lui rivendica la visione di una femminilità libera e spregiudicata per scelta. “Paprika”, ad esempio, demoliva la letteratura moralistica sulla prostituzione: «Detesto quel pietismo – commenta Tinto nel libro - La donna dei casini era sfrontata e noi uomini eravamo alla mercé di ragazze che ci illudevamo di comprare mentre erano loro a selezionare i clienti. Al Diana di Venezia ho capito che è inutile insistere, persino con una prostituta, se lei non manifesta interesse nei tuoi confronti».
Non più oggetto passivo di un immaginario fallocentrico, la donna di Tinto è consapevole sperimentatrice del proprio corpo. La sottomissione tanto anelata dal maschio è un fake, ma la scoperta che anche le donne vogliono molteplici alcove e orgasmi, lungi dal suscitare rancore, può cementare una nuova, reciproca intesa. E’ talmente vero che non è necessario dirselo: «Per trarre il massimo godimento dal rapporto consiglio non di pretendere la verità l’uno dall’altra, ma dirsi con allegria: “Giura che mi mentirai sempre”».
E - altro che maschilista - con “La chiave” e “Senso ‘45” Tinto fa cadere un altro tabù, quello dell’età: esaltando le quarantenni Sandrelli e Galiena, Brass dimostrò che il lapidario giudizio di target anagrafico cinematograficamente “not fuckable” era una scemenza.
Sandrelli fu un’amica come pure Silvana Mangano, di cui Tinto conosceva la disperazione degli ultimi anni, non la star ma donna sola e disillusa. Caprioglio invece mise in crisi l’unione con la moglie Carla Cipriani, detta simbioticamente Tinta, che si vendicò della rivale festeggiando il ritorno del consorte con un’orgia in un club di scambisti.

Giunti in fondo al libro, scopriamo che per Tinto Brass la vera trasgressione è l’amore. Lui vanta la fortuna di averne vissuti due, per Tinta, scomparsa nel 2006, e per Caterina Varzi, sposata dopo un colpo di fulmine che ha infiammato sensi e mente. Avvocato, psicologa forense e psicanalista, la volle attrice nel cortometraggio “Hotel Courbet” e poi l’assediò sfacciatamente, chiedendo i buoni uffici dell’allora compagno di lei, con cui s’instaurò un duraturo rapporto a tre. Felicemente accasato, oggi Tinto non pensa affatto di aver cambiato registro e spiega: «La vita non ignora il desiderio e la sregolatezza, ma è altrettanto vero che chiede l’amore. Non basta dire “ti amo”, se alle parole non corrispondono i fatti. E in amore i fatti sono i comportamenti sessuali. Il corpo, a differenza della mente, non inganna». Sicuri che sia lo stesso uomo che celebrava la concretizzazione delle fantasie sessuali e il tradimento condiviso come carburanti della vitalità di coppia (per lui e Tinta fu proprio così)? Non c’è contraddizione, semmai un passo in avanti Come in un film, il regista guarda alla conclusione e non ha paura di mostrare un’inedita malinconia. Il suo faro è Caterina – che lo ha tirato fuori dall’oblio restituendogli parole e ricordi - e grazie a lei avvalora ogni giorno la sorpresa di continuare ubriacarsi di vita, prendendone tutto quello che offre qui e ora: «Non esistono un punto di partenza e un punto di arrivo. Esiste solo il punto in cui sono».



















 

 




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