America Latina



Come fare un film di genere e camuffarlo tra i meandri di ostentate esegesi esistenziali. Non è un reato, intendiamoci – l’arte non dovrebbe avere nulla di sacro o intoccabile, nemmeno il suo stesso parlarsi addosso. Bisogna però, necessariamente, guardare al risultato: per “America Latina” di Damiano e Fabio D’Innocenzo è un nì. Attesissimo dopo l’exploit di “Favolacce”, apprezzato alla mostra di Venezia e soprattutto blindato fino all’uscita nelle sale (nonostante il passaggio al Lido, nessuno è riuscito a far trapelare uno straccio di spoiler), è un noir surreale – inevitabilmente casareccio, una tara forse naturale per gran parte dei cineasti italiani della nuova generazione. Insomma, un precario equilibrismo di suspence, che sta a metà tra Dario Argento e Shining, con le blasfemie e le incompatibilità del caso.Ancora una fiaba nerissima, ambientata nelle sabbie mobili della provincia venefica cara ai fratelli prodigio. Che qui ci presentano Massimo (il loro attore-feticcio Elio Germano), un dentista affermato che ama la tranquillità: le sue giornate sono scandite dal lavoro e l’esercizio quotidiano degli affetti con le figlie e la moglie; unico diversivo le serate alcoliche in compagnia di un amico, che però non riesce a tentarlo verso ammiccamenti ad avventure extraconiugali e altre trasgressioni. Tutto cambia con la scoperta di una ragazzina prigioniera nello scantinato della bellissima villa dal design aerodinamico. Massimo non sa – o non ricorda – chi sia, ma non la libera, anzi la lascia lì, legata a un palo, portandole acqua e abiti puliti come ad un animaletto in cattività. Perché, mentre cerca informazioni sull’identità della bambina, continua a tenerla reclusa? Perché non si confida con la moglie, della quale sembra molto innamorato? Un attimo dopo essersi posti queste ragionevoli domande, gli spettatori capiscono che nella mente di Massimo è già avanzato un processo irreversibile di follia. Germano, qui al secondo ruolo di psicopatico sotto mentite spoglie di persona perbene (in realtà il terzo, se vogliamo ricordare “La tenerezza” di Gianni Amelio, dove era autore di una strage familiare), lascia senza fiato per la capacità di rappresentare anche fisicamente la successione di malsane irregolarità – occhi allucinati, respiro corto, vene che pulsano sulla nuca rasata - che bucano la bolla di normalità per esplodere in un climax di allucinata disperazione.
A sottolineare sgradevolezza e paura, una regia voyeuristica che indugia morbosamente su rughe, impurità epidermiche, cicatrici e secrezioni. Come già in “Favolacce” le inquadrature ravvicinate celebrano in modo spietato – mai disumano – una cinica pornografia del terrore. Ma questo film è completamente diverso dal precedente – in comune solo l’iconografia della piscina, status symbol di un microcosmo da periferia arricchita.
 I D'Innocenzo un po’ se la raccontano, e si nota. Non furbi, come qualcuno ha insinuato, ma più prosaicamente convinti. Alle critiche non reagiscono bene e sono persino peggiorati dai tempi delle frecciatine dell’invidioso Muccino, se stavolta Fabio risponde a suon di bestemmie a un troll che aveva preventivamente bocciato (sulla parola… da hater) “America Latina”. Che i fratelli siano antipatici a tanti è un dato oggettivo, ma le loro note registiche, bisogna dirlo, qualcosa contro se la tirano. Per i suoi autori è un film psicologico contro il patriarcato, un’opera di denuncia della mascolinità tossica, sotto la cui boriosa superficie trema una fragilità che rasenta la pazzia. E si sono pure trattenuti, visto che l'idea era quella di fare un film quasi muto, affidato totalmente all'iperstilizzazione. Ecco, una didascalia sarebbe indispensabile, perché tutto questo appare difficile da cogliere. Non basta l’accenno (con il cammeo di Massimo Wertmuller) a un disastroso rapporto padre-figlio per innescare, tipo mappa concettuale, il collegamento con il complesso obiettivo artistico dei D’Innocenzo – che, impavidi dell’etichetta di intellettuali snob eppur dannati, si concedono la tentazione (molto radical chic) del genere e osano una citazione da “The Others” di Alejandro Amenabar (ma, a proposito di narcisismo, anche l'autocitazione da "Favolacce" con la voce fuori campo del telegiornale che annuncia un omicidio-suicidio in famiglia). 
Verrebbe da dire: parlate come mangiate. Tra l’altro i talentuosi gemelli romani sanno farlo benissimo (giusto, Zerocalcare?), non da caciaroni ma da geniali autori.
La cosa più bella di questo film è l’atmosfera da deserto dei Tartari, che lascia un’inquietante impressione di solitudine dopo la tragedia. Ovunque proliferano macerie superstiti alla violenza di una bomba. Ciò che è integro o apparentemente perfetto è una menzogna, l’immondizia sotto il tappeto. La villa di Massimo, il bar, lo studio dentistico e gli altri luoghi della storia sembrano galleggiare nel vuoto, e l’umanità ambigua che interagisce con il protagonista si trasforma in una sbiadita illusione. Realtà, sogno e ossessione fluttuano tra labili confini, lasciando ognuno preda inerme dei propri demoni. Tutti i personaggi hanno un guasto, qualcosa da nascondere, forse una colpa. Forse semplicemente dimentichiamo, perché la verità sarebbe insopportabile. Per salvarci dal male che alligna dentro di noi non vale altra immunità che l’amore – ma questo film lascia poche speranze che esista davvero.

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