Il capo perfetto



Premessa cinica ma oggettiva: un po’ tutti quelli che abbiano mai lavorato nel privato riconosceranno in modo inequivocabile situazioni e personaggi di “Il capo perfetto”, film di Fernando Leòn de Aranoa scelto per rappresentare la Spagna agli Oscar. 
Come dire, brutalmente, che (ad alti livelli) gli imprenditori onesti e soprattutto dotati di umanità sono esemplari rari. La maggior parte – triste ma vero – sono invece molto simili al vampiresco Blanco, interpretato da un grandioso Javier Bardem, titolare dell’omonima azienda leader produttrice di bilance, ereditata dal padre mettendo una firma dal notaio. Ma tant’è, lui si sente un eccezionale uomo d’affari, il cui motto è racchiuso dai valori di duro lavoro, equilibrio e fedeltà. L’ultima delle tre paroline che campeggiano in un antico locale della fabbrica insieme ai manifesti d’epoca della lunga storia aziendale, Blanco la pretende incondizionata dai suoi dipendenti. Che per lui, pater familias e insieme padrone, sono figli – e insieme schiavi, proprietà, oggetti. Padre sì, però tutti lo chiamano capo (solo una volta sarà pronunciato il suo nome, Julio). 
Vi ricorda qualcosa o qualcuno? Tranquilli, è normale. E’ l’effetto (assolutamente voluto) di questa commedia sulfurea, nel solco del filone dalle venature black ormai ventennale in questo genere cinematografico iberico. Dove dalla satira si sterza verso il dramma senza rendersene conto – come nella vita, la commedia più sarcastica e spietata.
Dietro l’apparenza pubblica impeccabile, Blanco è arrogante e borioso – sgradevole no, è quella la fregatura. Varcato il cancello in ferro battuto dell’azienda (che ha lo stesso stile, dolorosamente iconico, di Auschwitz), ai suoi lavoratori chiede turni massacranti, ammirazione e genuina fiducia in lui, che attraverso totale ingerenza nelle loro esistenze personali, esercita controllo però li protegge – come un padre, appunto. Un meccanismo mafioso, il cui carburante è ovviamente una dipendenza permeata di cieca sottomissione. Il capo è quello che ti dà da mangiare, ti porta nei night e ti offre una ragazza per distrarti da una crisi coniugale, sorveglia un figlio scapestrato che tu non sei in grado di raddrizzare. E’ migliore di te, è potente, sa come risolvere i tuoi casini. In cambio vuole gratitudine e devozione – oltre ad altre piccole prebende, ad esempio il diritto sessuale sulle stagiste dell’azienda, tutte donne giovani tra le quali sarà scelta l’amante temporanea di turno. Ma anche qui Blanco sfodera fascino e savoir faire: le ragazze (che sono “sue” perché lavorano per lui) lo adorano, si innamorano e soffrono nel momento inevitabile del benservito, per fare spazio, senza lasciare tracce pericolose, alle nuove arrivate.
Al centro della vicenda c’è un concorso con in palio un premio altisonante – uno dei tanti che l’azienda ha nel tempo collezionato, esposti nel salotto dell’imprenditore. In vista della visita della commissione esaminatrice, ogni dettaglio deve essere irreprensibile ma proprio adesso gli ingrati dipendenti sembrano rinnegare Blanco. Il problema più serio è rappresentato da un contabile vittima della roulette dei tagli, che reagisce al licenziamento con un folle sit-it davanti all’ingresso della fabbrica, con tanto di megafono e striscioni ipercomunisti. A questo grattacapo si aggiunge la scappatella del capo con la stagista sbagliata – la figlia (in incognito) di un amico d’infanzia (Almudena Amor), che, trasformatasi in una sexy ninfetta, rivela sua identità soltanto dopo che i due hanno consumato una quasi incestuosa notte di sesso sfrenato. Mentre l’ex dipendente (il caratterista spagnolo Oscar de la Fuente)si erge a eroe proletario (completamente fuori di testa e indisponibile non solo ai compromessi ma pure a trattative vantaggiose… come forse dovrebbero essere davvero gli eroi) che combatte il capitalismo sull’onda di un’ideologia insensata (ma, cavoli! tremendamente giusta), si susseguono una serie di paradossali peripezie. 


E nonostante Blanco si sveli sempre più una vera carogna, viene da solidarizzare con lui per le magagne che gli combinano quei figlioli scapestrati, deludendolo a morte. Sì, perché il capo, come ogni narcisista nel massimo delirio di onnipotenza, ha un bisogno vitale delle sue vittime e la scoperta di non essere amato ma soltanto temuto è uno choc. All’improvviso il suo carisma è un bluff ben noto ai lavoratori, una comunità di opportunisti e sciacalli che gli mentono e alle sue spalle fanno imbrogli di ogni tipo. All’improvviso non riesce ad ottenere la lealtà che credeva di aver instillato in loro nell’affetto filiale subordinato alla necessaria obbedienza. La triste verità che si manifesta davanti agli occhi di Blanco è che le persone, semplicemente, si possono comprare. E quando la cifra non è abbastanza o l’interesse finisce, si vendono a un acquirente migliore. 
Un cast formidabile (una nota merita Manolo Solo, l’esaurito Miralles), colpi di scena ad orologeria e dialoghi eccellenti conducono la storia verso un inatteso epilogo violento, crudele. 
Blanco otterrà il suo premio da aggiungere sulla parete d’onore e anche la prova di una viscerale abnegazione, quella del vecchio Fortuna (Celso Bugallo), che a lui e all’azienda sacrifica il bene più prezioso. Ed è lì che il capo ha la sua occasione di redenzione - e ci sembra nitidamente che voglia coglierla per mostrare finalmente un volto umano. In “1984” Orwell scrive che “non è tanto restare vivi, quanto restare umani”, citazione che si attaglia pure a questi nostri tempi abbrutiti dall’odio dilagante. Ma essere Blanco ha un prezzo, che è quello di dover indossare l’eterna maschera dell’autocontrollo – le fragilità emotive offuscano l’equilibrio e con esso la capacità del comando. E non risulta che nessuno fin qui abbia scoperto un modo per governare praticando l’umanità.

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