Monica Vitti, noi donne siamo fatte così





I vari omaggi dopo la scomparsa di Monica Vitti ne hanno celebrato il grande talento, il fascino, i suoi indimenticabili film. Ma di questa straordinaria attrice si è ricordata anche la personalità di donna, alludendo a una lezione di femminismo da parte di colei che sul grande schermo sdoganò la sessualità libera, la demolizione dei tabù di costume, il tradimento praticato senza falsi perbenismi anche dall’altra metà del cielo, la sessualità libera.
Ho amato i personaggi interpretati dalla Vitti – quelli esistenziali e dolorosi degli anni da musa di Antonioni e quelli da regina della commedia. Questi ultimi (l’Assunta Patanè di “La ragazza con la pistola”; l’Adelaide di “Dramma della gelosia”, la Raffaella di “Amore mio aiutami”) sono un delizioso campionario di vizi e debolezze muliebri, e mi sono chiesta in cosa possano attribuire a Monica lo status di icona femminista – nel senso militante lo fu sostenendo la lotta ma io qui parlo del suo immaginario cinematografico.
Preciso che per me è assolutamente così: c’è più femminismo in un grammo delle sue sospirose Lisa, Livia e Lucia che in cento urla farisee di attiviste che pubblicamente predicano diritti mentre compiono massacri privati su altre donne, spesso per i contendersi i favori dell’uomo.
Ma già in tempi non sospetti (Vitti era viva sebbene annientata dalla malattia) l’ondata revisionista della cancel culture si era levata su scene cult come la litigata a suon di sganassoni tra Monica e Albertone Sordi in “Amore mio aiutami”, dove lui reagisce all’amore di lei per un altro con una gragnuola di schiaffi tanto forti da farla sanguinare. Non è un unicum: in tanti film Monica Vitti le prende da compagni gelosi e violenti, e se questo tipo di finzione cinematografica nella nostra commedia è spesso iperbolica e surreale (vedi le scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill), molti ci hanno visto il rischio di normalizzare, seppur iconograficamente, simili sopraffazioni. Dove la donna ha un ruolo preciso, e soprattutto le donne di Monica Vitti. Ovvero: sei bella e libera, hai carattere, rivendichi il diritto di non amare più o cambiare l’oggetto della tua passione (come gli uomini fanno abitualmente). E per questo devi essere “messa a posto” usando la mano pesante. Sappiamo che negli anni Sessanta era così, e purtroppo lo è in gran parte ancora oggi. Il problema, quello che dà fastidio, è che non dovrebbe vedersi, e in quel modo, in una commedia?
Il punto è questo, che quelle fossero commedie. Il che rimanda all’associazione di idee con qualcosa che faccia ridere – e la violenza non deve farlo mai, neanche per satira alla Charlie Hebdo. Certo, stiamo parlando di film di cinquant’anni fa, materiale vintage da passaggi televisivi a notte fonda, roba da cinemaniaci in età. Difficile che qualcuno oggi possa prendere a modello quelle brutalità per avvalorare un pensiero di odio misogino. Onestamente, gli incel maligni sostenitori dello stupro punitivo hanno altre fonti di ispirazione che l’ira di virile onta di un Sordi o un Giannini. 
E poi, quelle botte non dovevano far ridere, non è mai stato quello l’obiettivo. Men che meno nel “Dramma della gelosia” dove il sottotitolo che rimanda ai particolari in cronaca è agghiacciante e la follia di Oreste-Mastroianni - assassino della ex che dopo aver scontato la pena carceraria impazzisce e immagina di avere ancora accanto la donna uccisa – è una feroce satira alla compassionevole indulgenza che società e media riservano a chi compie questo tipo di delitto motivandolo con la pazzia amorosa. Insomma i “giganti buoni” che escono fuori di testa a causa di compagne “esasperanti”, come senza vergogna ha detto - non negli anni Sessanta ma qualche mese fa - la giornalista Barbara Palombelli. Ettore Scola si abbatte contro questa ipocrisia, usando il registro melodrammatico di cui fu maestro – spiazzante, ma il bersaglio è quello non certo fare comicità crassa su quello che allora non si chiamava ancora femminicidio. Ma lo era, ovviamente. Le donne della Vitti hanno tutte le caratteristiche per incarnare il perfetto caprio espiatorio della furia maschile.
Se l’è spassata eccome, nei suoi film, Monica, tra amanti, coppie aperte, toy boy e spasimanti tenuti appesi a un filo. Tenendo sempre le redini del gioco. In cambio, del resto, c’era una donna vera: cuore e sensi al massimo (“so’ tutta ‘n foco”, cantava nella Tosca). Agli uomini infliggeva capricci e angherie, ma li risarciva ampiamente di passione.
Assunta Patanè è una disonorata che a rimanere piagnona vittima non ci sta e orchestra una terribile vendetta. In molti ruoli la Vitti appare però come la classica dipendente affettiva, messa ripetutamente incinta fino a sfiancarsi da mariti con il “sangue forte”, o che si consuma per il solito stronzo. Invece è il contrario, quella lì è una gioiosa tattica troppo sofistica perché l’ingenuità del maschio la colga – oggi gli psicologi lo hanno battezzato love bombing, fa sentire i destinatari unici e speciali ma con una così la figata è che non si tratta di narcisismo patologico ma di sincera strategia seduttiva: è adorante perché lo prova davvero, e quando è incazzata e furiosa idem. 
Le donne di celluloide di Monica usano sapientemente il bastone e la carota. E ieri come oggi, quelli che si lamentano delle partner rompicoglioni ammettono poi coralmente una verità che in fondo li lusinga: la donna che rompe ci tiene, se non lo fa significa che è già concentrata su qualcun altro.
Stereotipi? Il cinema che rese popolare Monica Vitti adorava gli stereotipi. E la vera lezione femminista di Monica è che “noi donne siamo fatte così” (espressione più immediata per dire quello che adesso si ammanta di teoria scientifica osservando come gli uomini vengano da Marte e le donne da Venere). Nulla di male e nulla da cambiare. Prendo le sberle (e te ne restituisco pure), ma fieramente, mentre mi massacri, ti grido in faccia che voglio lui e non te. Su questo i maschi non hanno facoltà di negoziazione, e per un Oreste Nardi che si vendica con le cesoie, ci sono mariti arresi a concedere il divorzio e favorire con buoni uffici l’unione con il rivale, o duramente consapevoli che l’amore delle mogli si perde per noia e carenza di attenzioni.
Non resta che la consolatoria ossessione di chiedere, nell’orgoglio ferito, “dimmelo cosa hai fatto con lui”, proprio quello che conviene non sapere mai. Ma l’epilogo può essere terribile per tutti, come accade ai coniugi siciliani che in un episodio del film di Risi si uccidono insieme dopo aver inscenato per gli ospiti di una cena un outing da disinibiti scambisti.
Essere questo tipo di donna (quella che inventò la mossa e dal palco, Ninì o Dea, ballando maliziosa sventava gli attacchi del pubblico allupato) non è stato facile per Monica, né sullo schermo né nella vita vera di artista in un ambiente di maschilismo sfrenato. Dove lei ha mostrato la sua bellezza anche in modo lascivo (era incredibilmente sexy) senza mai diventare un corpo oggetto, perché sapeva di essere bravissima – lo sapevano anche i registi e i produttori. E poi, non c’è nulla di più irresistibile di una che ti fa ribollire le vene ma anche ridere. Infatti i suoi amori sono stati meravigliosi e devotissimi, meglio di un film. L’ultimo l’ha amata perdutamente anche nella cattiva sorte, fino alla fine.








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