King Richard



Se non è questo il sogno americano, non saprei quale lo sia mai stato. Ma dietro la storia vincente delle campionesse Venus e Serena Williams ci sono le ferite e il coraggio di una famiglia, che al cinema ora si racconta nel bel biopic “King Richard” di Reinaldo Marcus Green, candidato a sei Oscar (tra cui miglior film, sceneggiatura, attore protagonista e attrice non protagonista, la bravissima Aunjanue Ellis nel ruolo della madre).
Il re del titolo, grandioso, narcisista e insopportabilmente pignolo è il padre delle Williams, interpretato da un Will Smith che mette la pelle d’oca solo a incrociarne gli occhi lucidi sullo schermo. Nella produzione del film c’è lo stesso attore e le vere sorelle tenniste, che consegnano ai tifosi il racconto di una strenua lotta per l’autodeterminazione, che qui coincide con la questione razziale – e non potrebbe essere diversamente. Richard Williams, autore di un meticoloso piano di 78 pagine che progetta di trasformare in un memoir sportivo-motivazionale, è uno di noi, è il genitore che vuole per i figli una vita migliore della sua – e sogna per loro il successo, la gloria, il riconoscimento di talenti che forse anche lui possedeva ma la società gli aveva negato. Nel suo caso, però, c’erano stati pure l’apartheid, il ghetto e l’attrazione sventata ma sempre radente verso un durissimo serbatoio criminale. Richard non vuole soltanto un futuro luminoso per le figlie - lui vuole che a Venus e Serena tutto questo non succeda.
Invadente ed egocentrico, è inviso ai residenti del quartiere, che lo considerano un padre padrone e biasimano la routine militaresca di studio e allenamenti imposta alle ragazze, tanto da allertare i servizi sociali. Ma Richard non retrocede di un passo: mollare e rilassarsi significherebbe camminare sul filo della strada più violenta, dove i ragazzi neri si drogano, delinquono e crepano ammazzati in regolamenti di conti per una parola sbagliata. Per gli afroamericani non è fiction, ma realtà spietata. Anni dopo le vicende del film, una delle sorellastre delle campionesse è stata uccisa appena trentunenne.
Venus è educata a credere a coltivare l’autostima alle stelle, a sentirsi la migliore perché effettivamente lo è. Il motto paterno, scritto a caratteri cubitali su un cartello portatile che viene appeso sul reticolato di tutti i campi in cui le figlie si allenano, è: “Se il tuo piano fallisce significa che avevi un piano per fallire”.
Ma Richard non è un illusionista e sa quanto siano pericolose anche le agognate luci della ribalta. Questo padre vuole che le figlie, dotatissime tenniste, non smettano di studiare e restino umili come Cenerentola, fiaba che propone loro come vero e proprio manuale di formazione, stracciona che diventerà principessa perché non è mai stata arrogante e ha aspettato il tempo giusto. Nel film, che gli appassionati di tennis adoreranno, circolano star come McEnroe, Sampras e Capriati, quest’ultima autentica bestia nera per Richard a causa della fine precoce della sua carriera, bruciata troppo in fretta e conclusa in un baratro di droga e dissoluzione. Venus si sente già pronta, ma il padre la obbliga a rinunciare alle competizioni juniores per tre anni e poi irrompere a bomba nel professionismo. Mandando al manicomio il mitico coach Rick Macci (ma nel film si vede anche un’altra istituzione tennistica, l’allenatore e conduttore televisivo Vic Braden), a cui rifiuta la mediazione per due offerte di contratti milionari.
Perché Venus (e più tardi la sorella Serena) non è semplicemente una campionessa, lei rappresenta l’orgoglio e il riscatto di una comunità. Vengono in mente le parole di Barack e Michelle Obama, che raccontarono come durante gli anni universitari si sentissero sempre in dovere di dimostrare le loro capacità, in un certo senso giustificando la razza come un handicap da colmare, continuamente un gradino in più da salire rispetto ai bianchi. Succede anche a Richard, che cerca un valido allenatore per le figlie ma non è mai preso sul serio. Quelle ragazze - per le quali ha l’ardire di chiedere training gratuiti che assicura di pagare con gli interessi quando le tenniste diventeranno le numero uno mondiali – sono troppo povere e soprattutto troppo nere per la Wta. Meglio il basket, magari.
Invece Venus sarà la prima donna afroamericana a occupare il vertice nel ranking internazionale e quella ad aver vinto più volte a Wimbledon, cinque. Lei ipotizzava di fare il bis, quindi ha superato le sue stesse aspettative.
Essere la numero uno è una conquista. Richard minimizza le lodi sperticate dei tecnici ai primi risultati delle figlie, sentendo addosso lo stigma di un compatimento, di un’ammirazione al ribasso. Quando facciamo una cosa non straordinaria e ci fanno troppi applausi è perché ci considerano paria, e addosso a noi quei traguardi minimi sono enormi. Ma lui per Venus e Serena punta in alto davvero, non si accontenta delle briciole della razza, mira all’eccellenza.
Quello che più desidera la tenace adolescente Venus è rendere orgoglioso di lei quel padre che le ha insegnato il tennis, uomo inarrivabile e arduo da soddisfare, testardo e inflessibile eppure protettivo contro chiunque tenti di smorzare l’autostima della sua ragazza instillando dubbi o facendo leva sulle insicurezze dell’età. Una protezione che Richard da bambino non ebbe quando, sotto i colpi di un’aggressione tra gang, vide il padre abbandonarlo e scappare lontano per salvare la pelle. Grazie a lui invece Venus è sicura di poter battere ogni avversaria, anche le più grandi. E’ soltanto lei che deve crederci, e tutto procederà bene, secondo i piani.
Alla prima finale importante di Sidney non andrà così contro Arantxa Sanchez, ma dopo quell’emozionante partita Venus entra nel mito. Il merito ovviamente sembra almeno per metà di Richard, che dal film esce come personaggio eroico – non un’agiografia ma quasi, ma, parlando con oggettività, un padre simile, maniaco del controllo e ostico da contraddire, dovrà essere stato invece ben altra storia. Le Williams, come produttrici esecutive, hanno evidentemente approvato una narrazione più morbida come rispetto verso la figura paterna e l’immagine familiare.
Will Smith, sapientemente invecchiato e con la pancetta da birra, ha tutti i numeri per ottenere l’Oscar dopo il già assegnato Golden Globe, e non sfugge a nessuno come il film sia costruito sulla sua interpretazione. Ma sono belle prove anche quelle della citata Ellis e della giovane Saniyya Sidney nel personaggio della Venere Nera. Qualcuno avrebbe preferito vedere più scene di sport, relegate allo spazio sfuggente di immagini di repertorio sui titoli di coda. In un film biografico su due campionesse planetarie uno se lo aspetta. Ma sarebbe stato fuori fuoco. Qui la vera scena non è del tennis ma di re Richard. Un padre afroamericano che ci ha creduto fino alla fine, ed ha avuto ragione lui. Era scritto nei dettagli in quel piano ciclostilato di 78 pagine. Aveva ragione perché si è avverato tutto. 
A quale prezzo possiamo solo intuirlo, tra le pieghe di una storia che rimane dignitosamente in superficie, sospesa tra detti e taciuti - un territorio di traumi sommersi che è proprio della famiglia. Non è indolore essere figlie di un re onnipotente.

Commenti

  1. La semplicità ostentata è ipocrisia sofisticata.
    Ma come si fa a sapere tutto https://cbo01.net dai film?

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