Elsa
Un ritratto intimo e passionale, dove la vita e la scrittura sono fusione di magma, si accarezzano con tenera dedizione, si sbattono addosso in un corpo a corpo disperato. “Elsa”, edito da Ponte alle Grazie, non è una biografia romanzata – sebbene Angela Bubba sia studiosa esperta dell’opera di Morante e a pieno titolo potrebbe scrivere un libro tecnicamente biografico. Già autrice per Carabba del saggio “Elsa Morante madre e fanciullo”, aveva scelto la scrittrice romana come tema della sua tesi di laurea: letto per la prima volta a 16 anni, “L’isola di Arturo” era stato folgorazione assoluta, genesi di un legame d’arte e spirito quasi primordiale.
Parlare di Elsa con Angela Bubba è come ascoltare il ricordo di una persona cara, qualcuno che appartiene al cuore e così è raccontato, testimoniato.
Nel tuo libro la maternità rinnegata e poi rimpianta è il filo conduttore della storia. Come avviene il salto dal privato di Elsa – l’aborto - alla narrazione di un sentimento universale che faccia accedere il lettore alla complessa anima di questa donna?
«Istintivamente, da quando ho iniziato a dedicarmi a Elsa Morante nei miei studi universitari, questo evento della vita dell'autrice mi è sembrato sempre cruciale, l'ho inteso come un fatto totalizzante che segnò l'Elsa Morante persona, donna e scrittrice. Dal particolare sono così risalita all'universale, costruendo un percorso che dall'inizio alla fine interpreta e rielabora senza sosta la perdita di quel figlio: l'aborto ha marchiato Elsa Morante nella quasi totalità della sua opera e ne ha modellato incessantemente il carattere e la sensibilità»
Elsa Morante fu la prima donna a vincere il Premio Strega e si guadagnò un posto importante nell’ambiente letterario, che è – allora e oggi – molto maschilista. Eppure lei voleva essere chiamata “scrittore” e forse sarebbe contraria a schwa, asterischi e revisionismo di genere. Orgogliosa e sensibilissima alla percezione della sua scrittura, come si sentiva dentro una società culturale che metteva continuamente alla prova le donne?
«Era abbastanza forte da poter fronteggiare numerosi ambienti maschilisti, ambienti da cui credo si tenesse spesso e volentieri alla larga: non per timore, piuttosto, comprensibilmente, per amor proprio. Non so con precisione come potesse sentirsi; forse si sarà sentita come io insieme a un sacco di altre donne, italiane e non, ci siamo sentite (e ci sentiamo ancora) moltissime volte. L'arte, la scrittura in questo caso specifico, salva anche da simili brutture»
Nel libro ci sono gli amori di Elsa. Ammetteva di essere compagna ostica, tradì molto e fu sentimentalmente instabile, eppure capace di amare profondamente. Oggi forse sarebbe classificata in una categoria psicologica in voga, una narcisista patologica. Aveva paura di amare o era innamorata dell’amore come ideale e quindi incapace di viverlo nella realtà?
«Essendo stata un genio, una visionaria, una precorritrice incredibile, non poteva avere una vita facile. Era volubile, inquieta, affamata di nuovo e insieme stritolata dai ricordi malinconici del passato. Era epica, omerica per la precisione, ed elegiaca allo stesso tempo. Poteva essere spensierata e grave, giocosa come un bambino di cinque anni e concentratissima come un monaco amanuense: queste due anime - lo disse anche Moravia - convivevano in lei senza problemi, al contrario sarebbe stata problematica la mancanza di questa dicotomia interna: senza di essa non avremmo avuto Elsa Morante per come l'abbiamo conosciuta, non avremmo avuto il suo splendore, la sua forza, la sua unicità. Non so bene come definirla, perché è stata tante cose e passò in mezzo a tante cose, glorie traumi indifferenze, non le mancò nulla. Posso tuttavia aggiungere che soffrì di una grave malattia - idrocefalia - che le fu diagnosticata con grande ritardo. Come mi ha spesso spiegato Giuliana Zagra, storica curatrice dell'archivio Morante presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, ciò può aver contribuito, e non poco, ad acuire la volubilità dell'autrice, a renderla ipersensibile e molto più soggetta a repentini cambiamenti d'umore»
Con Moravia ci fu competizione letteraria o come scrittori, amandosi, erano l’uno dalla parte dell’altra?
«Si stimarono sempre molto, sia durante che dopo la loro relazione e anche al di là di questa. A chi le parlava male di Moravia, Morante rispondeva "ha scritto Gli indifferenti", come a dire "siamo di fronte a un grande scrittore, cambiamo argomento". Stessa cosa fece Moravia, non risparmiando a Morante apprezzamenti sulla sua scrittura, fino all'ultimo dei suoi giorni»
Nel libro ci sono due piani. Elsa scrive un diario per recuperare il suo lato vero, quello infantile e fatto anche di cose atroci, di cui non dovrà giustificarsi. Nei romanzi invece quale era l’obiettivo della scrittura? Sembrerebbe l’opposto, ovvero nascondersi, usare la fantasia per scappare ed evadere.
«Lo spiego in una pagina del romanzo, in cui parlo di Casanova, del quale si raccontava che inventasse col tono di chi diceva la verità. Elsa nel mio libro fa l'esatto opposto: dice la verità col tono di chi inventa, come del resto diceva la verità nei suoi romanzi, racconti, poesie e saggi. È da qui che bisogna partire. Ogni (vero) scrittore non fa che questo. Ogni (vero) scrittore non usa la fantasia per scappare dalla realtà, bensì per afferrarla, scomporla e comprenderla meglio»
Perché Elsa era infelice?
«Ho il sospetto che amasse troppo. Sentiva ogni cosa all'eccesso, e spesso non era ricambiata in quella intensità»
Eri giovanissima quando hai conosciuto nella lettura Elsa Morante, cosa ti ha dato come donna e come scrittrice?
«Mi ha dato moltissimo, e nella maniera più autentica e viscerale. Nei momenti peggiori e nei migliori, dentro e fuori la scrittura. La devo tanto, forse molto di più di quello che giornalmente immagino».
Eri giovanissima quando hai conosciuto nella lettura Elsa Morante, cosa ti ha dato come donna e come scrittrice?
«Mi ha dato moltissimo, e nella maniera più autentica e viscerale. Nei momenti peggiori e nei migliori, dentro e fuori la scrittura. La devo tanto, forse molto di più di quello che giornalmente immagino».
E’ da anni ricercatrice autorevole dell’opera di Morante, ma stavolta Angela Bubba ha voluto unire la sua voce a quella dell’amata Elsa. E questo, edito da Ponte alle Grazie, è un romanzo, potente e viscerale, dove la protagonista è una donna vera ma anche un magnifico personaggio letterario – giustamente Paolo Giordano ha definito la trentatreenne Bubba che parla da queste pagine una “reincarnazione” di Elsa Morante: Angela conosce Elsa così bene da diventare lei. Lo fa con l’alternanza tra il narratore esterno che recupera episodi reali della vita di Morante e un diario scritto in prima persona, che immagina il tumulto interiore e la personalità indomita della donna Elsa. Che è stata una meravigliosa scrittrice e un essere fragile, sempre in ritardo sui tempi del mondo, sempre fuori posto.
Si racconta la sua infanzia di ragazzina solitaria e orgogliosa, che odiava la scuola perché le sue doti superiori a quelli dei coetanei la facevano sentire diversa. Il rapporto interrotto, incompiuto, con la madre Irma e con i due padri (l’indolente e filosofico Augusto, che le aveva dato il cognome, e il genitore biologico Francesco, il cui suicidio sembra instillare in Elsa il germe di un istinto autodistruttivo, l’attrazione verso altre anime inquiete e in fuga dalla vita). Il drammatico impatto con la malattia e il decadimento fisico.
La scrittura evocativa e carnale di Angela Bubba crea osmosi maestose con le suggestioni letterarie del racconto: l’amicizia tempestosa con Pier Paolo Pasolini (che stroncò “La storia” e per la scrittrice fu uno scioccante tradimento) e l’affetto per Natalia Ginzburg; la lunga relazione con il marito Alberto Moravia, troppo metodico e capace di osservare la realtà senza guizzi di ardimento, un “non ragazzino” che non avrebbe potuto placare la sua condizione di ansiosa volubilità; la fascinazione del cinema; l’assedio perenne della scrittura e l’incomunicabilità tra la percezione personale e quella esterna delle sue storie. Della sua scrittura Elsa era gelosa, non ha mai accettato quell’idea dei libri che appartengono al lettore.
Tema centrale di “Elsa” è il trauma dell’aborto giovanile. Non avendo vissuto la maternità vedeva la madri come creature mitologiche, che sovrastano la dimensione del corpo in un’immagine soprannaturale, come quella terribile della tragica Medea, alter ego della colpa di Elsa. La sua esperienza era stata un palpito brevissimo e volontariamente spezzato, che la perseguita cristallizzandola nel simulacro di madre fantasma – sublimò quella mancanza amando uomini molto più giovani e identificando l'amore nella premura, un'attenzione affettiva e disinteressata molto vicina al materno (disse una grande verità osservando come la frase che più di ogni altra esprime il vero amore sia chiedere "hai mangiato?"). In questo libro il cerchio si chiude con il mistico incontro con Arturo, l’utopia del figlio perduto e ora ricreato non dentro il grembo ma nella parola scritta.
Elsa aveva bisogno della disperazione, per scrivere e vivere. Perché “la pace insospettisce” - forse quella stessa pace che mai trovava Petrarca, conflitto tra sensi e spirito irrisolto perché non c'era un nemico ("e non ho da far guerra") ma soltanto la soggezione al dominio tirannico dell'amore.
La esistenza di Elsa Morante era una carcerazione, per Pasolini in “Accattone” sentiva di aver interpretato se stessa, una prigioniera. Bill Morris, il più appassionato dei suoi amori, la dipinse di blu, colore che ne sintetizzava la bipolarità di gioia e sconforto. La guerra le faceva paura – incomprensibile l’angoscia di veder disintegrare sotto le bombe un’umanità non certo affine, da cui si sentiva perennemente respinta. Ma la politica delle armi e dei tira e molla tra potenti per lei era un’indecenza. Il mondo non finirà la rassicurava Alberto, ma lei stava già pensando ad altro, a come sarebbe potuto andare tra loro e se esista la facoltà di cambiare un implacabile destino. Alla sua irrequietezza Umberto Saba diede questa risposta: “Le vite sono tutte, in un senso o nell’altro, vite mancate, l’arte è lì per soccorrere a queste mancanze”.
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