SuperNature



Antipatico, grasso e cattivo. E schifosamente ricco. Nello spettacolo SuperNature di Ricky Gervais tutto è sgradevole, a partire da lui, che non fa nulla per rimediare, anzi. Lo stand-up del comico inglese su Netflix è un consapevole compendio di scorrettezze e carognate sotto l’onnipotente ombrello dell’ironia. Ma quando la tocca non certo piano su omosessualità, razzismo, pedofilia, sessismo Gervais non ha nessuna intenzione di giustificarsi.
Ad ogni sketch pronostica la bastonatura censoria, invece, rinviando al mittente le proteste delle associazioni lgbt, Netflix non ha fatto tagli e la presenza di questo monologo supercinico su una piattaforma mainstream è la migliore risposta di chi si lamenta che oggi, a colpi di cancel culture e revisionismo militante, non si possa più dire nulla. 
Invece paradossalmente è proprio adesso che si può, e tra odiatori e tuttologi del web la comicità è l’unica espressione su cui non si dovrebbe sindacare. Non siamo neanche vicini al durissimo sarcasmo di Charlie Hebdo, ma anche il provocatore Gervais in modo solo apparentemente rozzo rivendica la libertà di ridere di malattie, disgrazie, povertà e ingiustizie. Con una novità: il comico qui si prende la briga di spiegare che dire qualcosa di brutto ma ridicolo non significa pensarlo davvero, né offendere. Inutile anche scusarsi perché non sappiamo se tra cinquant'anni ci perseguiteranno per qualcosa che abbiamo detto oggi ed è ancora ammissibile - ma è soltanto questione di tempo, un giorno sarà un nuovo, creativo tipo di shaming o blaming.
Che le sue gag facciano ridere è clamorosamente vero – ma se lo ammettiamo ci sentiamo subito in colpa, ci auto-fustighiamo come persone vomitevoli. Come si fa a scherzare sul funerale di un bambino, o sull'Aids, sulla disabilità, sullo stupro? Gervais tira fuori il peggio di noi per intrappolarlo in un retino di farfalle e asfissiarlo, ucciderlo. Facciamo schifo, insomma, ma se ci limitiamo a ridere l’uno dell’altro e poi al momento giusto salviamo la gente dalle bombe o offriamo un pasto a un affamato, se ci tendiamo una mano, forse non andremo all’inferno.
Forse non ci andranno nemmeno i cattivi veri, quelli di cui possiamo dire impunemente di tutto, come non si può delle vittime. Ma siamo sicuri che alle vittime vada bene essere trattate con ogni riguardo perché, sostanzialmente, ci fanno pena? Gervais mette le mani avanti, ad esempio sulle persone trans: si sentono discriminate e lui le sfotte come tutti gli altri proprio per spirito di inclusione. E va giù pesante sulla querelle dei pronomi, l’identità di genere e la biologia (non riporterò la frase, ma è tremenda, come quella su Dio che manda il flagello dell'Aids perché non ama la visione del sesso tra gay).
L’umorismo serve a questo, e sprigiona un corroborante potere chimico soprattutto nelle situazioni tragiche: al funerale della nonna di un caro amico, il comico fece una battutaccia sul sapore amaro delle ceneri della defunta, e l’amico, disperato, scoppiò a ridere. Certo, che la morte sia argomento dissacrabile è noto – in fondo, come accade per la stupidità, quando saremo morti non lo sapremo; la morte e la stupidità sono dannose solo per gli altri. E lo stesso Gervais, evocando ribrezzo per la vecchiaia, celebra uno stile di vita malsano ma allietato da alcol e stravizi alimentari anche se toglie dieci anni di vita, chè tanto sono i peggiori. Grasso e assolutamente indisponibile a rinunciare al cibo nonostante gli ammonimenti dei medici, quindi può ridere (e far ridere) degli obesi, augurando a sé e loro di prendersi magari un tumore ma morire felici di aver goduto dei propri vizi. Farà effetto sapere che quest’uomo che ci sbatte in faccia i suoi soldi e fa il verso a gay e immigrati non ha la patente perché ama troppo bere – e con l’alcol in circolo non si guida.
Ben più tosto sfidare la morale comune provando a suscitare tenerezza per Hitler ragazzino o stuzzicando le femministe con doppi sensi e irritante mansplaining. La comicità scorretta è dilagante in questi anni di tentativi di radicalizzazione linguistica, hate speech e nuovi reati. Preciso che tantissime parole spacciate per umorismo mi danno il voltastomaco. E io sono tra quelli che hanno compreso la reazione violenta di Will Smith allo scherzo di Chris Rock sull’alopecia di Jada Pinkett (che è roba da oratorio in confronto a tanti passaggi di SuperNature).
Credo che ci sia un limite da non superare, anche se non so dove si debba collocare e sono però certa che sia soggettivo. Dipende da chi è bersaglio della risata (qualcuno vuole esserlo e ne ha giovamento, qualcun altro ne è ferito). Ma so anche che sulla bilancia della libertà c’è da mettere in conto che su un piatto ci si possa indignare – e non per questo certe parole debbano essere tabù; i tabù sono sempre causa di mali peggiori e giustificatori di abomini e soprusi.
Poi dipende da chi è l’autore della comicità, sicuramente. Il vero discrimine è l’intelligenza, in una scala che va dallo black humour di alcune agghiaccianti pagine social, alle pretenziose cretinaggini di Pio e Amedeo fino a Gervais. Il discrimine è nella differenza tra una boiata random su una donna fatta a pezzi e il suo mestiere nel mercato del sesso e un aneddoto reale su insegnanti pedofili e gay. Gervais ha imparato dalla sua cattivissima (e divertente) madre, che commentava con scetticismo che il figlio quattordicenne non era stato molestato dal prof perché poco attraente.
La natura umana superiore che il comico britannico celebra nel suo show (seguito di “Humanity”) non ha bisogno di esperimenti, scoperte scientifiche e incesti alieni. Siamo malriusciti e freaks di nostro, al naturale appunto. Siamo orribilmente coriacei. Pellacce e cuori duri sopravvissuti alla pandemia, non ci resta che ridere e continuare a dircene di tutti i colori prima che il mondo si estingua. 
Il nuovo spettacolo di Gervais, “Armageddon”, parlerà proprio di questo e il comico promette che farà di tutto per farsi bannare.

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