I bambini uccisi dai genitori non esistono per nessuno




Quando leggiamo di un padre o una madre che uccidono un figlio, se siamo genitori ci sentiamo angosciati. Non è solo sconcerto, non è dolore – questi sono sentimenti comprensibili: siamo sconcertati perché amiamo i nostri figli e ci domandiamo come possa accadere un orrore simile, è inspiegabile per noi; siamo addolorati perché non riusciamo a non pensare a quella sofferenza inflitta ai nostri figli, per un genitore i bambini sono estensione simbolica della propria prole e sentiamo sulla loro pelle ogni male che si faccia a un minore, in generale. Ma se queste emozioni sono istintive, l’angoscia no, quella non dovremmo provarla. Non parliamo di un mostro che ha rapito, violentato e ucciso un bambino (l’angoscia in questo caso sarebbe ovvia, può capitare anche ai nostri). Parliamo di madri e padri che hanno spezzato la vita dei loro stessi bambini, spesso con modalità crudeli, ciniche, efferate. Ai nostri figli dunque non può accadere, perché noi non lo faremmo mai. Perché allora siamo angosciati davanti alla fine di una bambina di diciotto mesi lasciata a morire di stenti da sua madre? O davanti alla lucida esecuzione di una ragazzina prelevata dalla madre a scuola con il programma di ucciderla?
Qualche giorno fa, parlando con Annalisa Cuzzocrea del suo libro “Che fine hanno fatto i bambini”, avevamo condiviso la riflessione sull’estrema fragilità dei genitori di oggi. Siamo iperprotettivi, ansiosi, impauriti. Teniamo i nostri figli sotto una campana di vetro ma nello stesso tempo li adultizziamo proiettando su di loro le nostre ambizioni fallite e pretendendo di vederli sviluppare un’autonomia fulminea e vincente, impossibile dopo averli soffocati con la nostra ingerenza onnicomprensiva. Viviamo nell’epoca più informata di sempre, dove di genitori e figli parlano tutti e possiamo avere accesso mediatico a pareri di psicoterapeutici, teorie spicciole, training motivazionali e gruppi di aiuto, eppure sbagliamo molto più che in passato. Sbagliamo fino alla tortura e la morte dei nostri figli. Non voglio mitizzare il passato: penso che ogni progresso sia cosa buona, anche se ha inevitabili lati negativi. I nostri genitori non erano più bravi di noi – nessun genitore lo è mai alla perfezione e, anche se è banale ricordarlo, i terribili padri e madri di oggi sono stati cresciuti da qualcuno che non è stato esente da errori. Qualcuno di noi compie persino gesti educativi meravigliosi che in passato non sarebbero neanche mai stati concepiti, ma bisogna andare lontano. Ad esempio in Messico, dove un padre ha dato una lezione esemplari al figlio, che aveva insultato un compagno di scuola per scarpe sottomarca: il ragazzo è stato costretto a regalare al compagno le sue scarpe firmate preferite e ad indossare vecchi sandali per una settimana. 
Chi invece oggi si trasforma in assassino dei propri figli, o li abbandona o li cresce segnati da psicosi e disturbi di personalità ha però qualcosa di più abominevole dell’antico padre padrone (che quanti danni, quante sofferenze ha provocato), depositario legittimato di un diritto di vita e di morte sulla sua progenie. La mia impressione è che i genitori assassini siano una pentola a pressione che all’improvviso esplode. Non sempre pazzi, neanche cattivi (sebbene la cattiveria esista) o mostri. Semplicemente scoppiano perché questo non è più un mondo per rapporti umani e soprattutto per famiglie – o forse è la famiglia un “non luogo” che non è mai stato all’altezza delle aspettative affettive che dovrebbe soddisfare. Ed è stato agghiacciante accorgermi che la società adesso empatizza con questa esplosione e deresponsabilizza i genitori distratti, abusanti, anaffettivi, omicidi. Noto con grande turbamento quante persone oggi si dichiarino felici di non aver avuto figli, rivendicando una situazione non subìta ma frutto di consapevole scelta, rimarcando di non aver mai provato neanche il desiderio di diventare genitori. In passato non lo diceva (soprattutto le donne, è chiaro) per non essere giudicati: si preferiva “motivare” l’assenza di figli confessando di non aver incontrato il partner giusto o di avere problemi fisici, meglio attaccarsi addosso un’etichetta di sfigati in amore o difettosi nel corpo anziché apparire contro natura, aridi e degeneri nell’ipotetica ammissione di non volerne e basta. Va benissimo che oggi le cose siano cambiate e che non si abbia vergogna di esprimere questo pensiero. Ma poi si va oltre, fino a ribaltare il pensiero finora dominante con un altro estremismo, quello che fare figli sia sbagliato e persino morboso. Chi li ha avuti o li vuole è accusato di egoismo e gli si vaticina (o augura?) una caterva di disgrazie, dalla fine della passione di coppia, all’annullamento di ogni aspirazione lavorativa, alla schiavitù da parte di piccoli tiranni destinati non a trasformarsi in adulti solidali e grati ma nella versione ancor peggiore di arroganti sanguisughe di energie e soldi. E poiché i figli sono il male assoluto per noi e per loro stessi, gettati in una vita da incubo, i genitori presenti e futuri sarebbero stati spinti, nel procreare, da un enorme egoismo.
Insomma, oggi lo stigma capovolto è essere padri e madri. Poco importa l’illogicità di immaginare un’avanguardia di non genitori senza che l’umanità si estingua (“ma tu comunque ci sei, quindi tua madre ha fatto bene, no? No, io se potessi non sarei nato, davvero, ti assicuro che odio vivere”). Se hai figliato sei uno stronzo/a oltre che un cretino e illuso, mentre noi children free siamo fighissimi, abbiamo capito tutto e salveremo il mondo, senza discendenza non si capisce bene come ma è così, fidatevi.
Dall’altro lato della barricata, chi è genitore difende la sua posizione continuando ad esaltare (ma con palese sfiatata baldanza) la meravigliosa esperienza di generare vita, assistere alla crescita di un essere umano, dare e ricevere amore incondizionato (almeno nelle intenzioni). I nostri figli per noi sono tutto, dicono i genitori convinti e non pentiti. Ancor di più in un modo in cui, a differenza di loro, esistono genitori mostri – due volte odiosi perché le loro mostruosità avvalorano le tesi antigenitoriali di quelli dell’altra sponda, che ad ogni tremendo caso di cronaca commentano con serafici “io ve l’avevo detto”. Anche perché chi sta sull’altra sponda magari ha un cane a cui mette il cappottino e con cui si scambia bacini, però se lo fa una mamma con il suo bambino l’argomento è controverso. Lo ha sperimentato lo psicoterapeuta Alberto Pellai, travolto dallo shitstorming dopo un post su Facebook dove criticava duramente effusioni troppo intime tra genitori e figli. La considerazione di Pellai è lineare: tra le altre cose, l'esperto sostiene che se ti comporti con tuo figlio come con il tuo partner e, ad esempio, lo baci in bocca, lo confonderai e gli farai assimilare l’idea che questi gesti tra un adulto e un minore siano normali. Ma i follower sbaciucchioni, colpiti sul vivo, lo hanno aggredito additandolo come pervertito perché vede malizia in un atto affettuoso e puro.
Pellai ha ragione e ha torto. Baciare sulle labbra un figlio, se fa piacere anche a lui, non è un’aberrazione. Ma è vero che ci siano tanti genitori eccessivamente gelosi e possessivi, che, soprattutto se sono sentimentalmente soli, instaurano un’ambiguità pericolosa, ingerendo nella vita privata dei figli, creando zizzania con nuore e generi, usando figli economicamente dipendenti come stampelle contro la solitudine.
Ho parlato sin qui di genitori e non solo di madri, volutamente. Ma so bene che le donne continuano ad essere al centro di un’attenzione speciale quando compiono un figlicidio. Un caso simile a quello della piccola Diana, lasciata a morire chiusa in una stanza perché d'intralcio alla libertà di una relazione sentimentale, era accaduto due anni fa in provincia di Frosinone, quando entrambi i genitori uccisero il figlio di due anni per consumare in santa pace un rapporto sessuale. Lo fecero insieme, anche se le mani attorno al collo del piccolo furono della donna, che oggi è, lei sola, ricordata nella lista nera delle madri assassine. 
Un padre che uccide suo figlio è messo alla gogna in modo perentorio ma fugace, senza troppe analisi sull’episodio, le cause, i pregressi. Se invece l’autrice del delitto è la madre, lo choc collettivo è così forte da generare domande. Si condanna, ma sempre più spesso si prova a comprendere e si invita alla pietà. Ci si trasforma in esperti di depressione post partum e si fanno dissertazioni amatoriali sulla sindrome di Medea. Perché è un atto tremendo, ma non è da madre, e incasellarlo tra i peggiori crimini dell’umanità significherebbe riconoscere che è successo davvero, cioè che le madri uccidono e non sono quegli angeli immolati e pronti a morire per i loro figli. Perché fa troppa paura e quella donna doveva essere per forza pazza, drogata, plagiata, posseduta da qualche demone. Continua ad essere, in fondo, una questione di corpo femminile: se hai portato in grembo tuo figlio e l’hai partorito, non puoi averlo ucciderlo. Un padre può, quello è spiegabile. La madre invece deve avere un’attenuante - se non l’avesse dovremmo dire che lo spirito materno è un’invenzione del patriarcato. 
Però è successo davvero che una madre abbia lasciato chiusa in casa per sei giorni senza acqua né cibo la figlia di un anno e mezzo. E non ci resta altra via di fuga dall’orrore che provare pietà, perché certe volte leggendo queste storie nella testa ci attraversa il pensiero raggelante che potrebbe succedere anche a noi. Se ci convinceremo che è stata follia, o colpa della società, si sentiremo in salvo, sicuri che a noi non accadrà. Ed è questo che ci interessa. Vogliamo poter dormire tranquilli e non essere attanagliati dall’ennesimo terrore. Si parla solo degli assassini, per esorcizzarli, mentre dei bambini uccisi non interessa. Facciamo volare qualche palloncino bianco e poi di loro non si parla, mai. Pensare a loro farebbe ancora più paura, i bambini uccisi dai genitori sono morti due volte - tolti dal mondo, dopo un attimo non esistono per nessuno.

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