Blonde



Nulla nuoce a un film quanto un’aspettativa delusa, ma nel caso di “Blonde” pensare di trovarsi davanti a un classico biopic con atmosfere hollywoodiane e glamour è persino fuori luogo, se si ricorda che il film di Andrew Dominik è tratto dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, dove si fanno sconfinare i fatti documentati nelle teorie complottiste su Marilyn e con una buona dose di licenza poetica. Chi la conosce sa che Oates cose patinate non ne ha scritte mai (a lei comunque, pur non avendo partecipato, il film è piaciuto), così, anche se la protagonista è la star più mitica di tutti i tempi, anziché immergerci nell’epoca del cinema americano, qui precipitiamo in un abisso buio.
Il titolo di libro e film è un’attestazione chirurgica. Parliamo di una bionda senz’anima né cervello – e se li ha non interessano, quella donna è sesso puro, a disposizione di ogni pensiero proibito maschile. Senza limiti di decoro: con lei, nata per provocare ed eccitare, è concesso fare i comodi più lerci. Semplicemente una bionda. Ana de Armas, truccata da maestri, è un clone impressionante, ma soprattutto brava fin nelle più piccole sfaccettature di una personalità tormentata e distruttiva. Coraggiosa nell’affrontare situazioni a tinte forti e mettere una nudità intenzionalmente ammiccante (Marilyn doveva esserlo) a servizio di quella che si rivela un’oggettiva, spietata rappresentazione di violenza. In quegli anni il Me too non era neanche immaginabile, ma a Hollywood un diffuso sesso tecnicamente consensuale era a tutti gli effetti stupro.
Marilyn Monroe ha un nome frivolo e ridondante, è il sogno erotico di ogni maschio del pianeta, la diva bionda e svampita che sullo schermo e nelle fotografie mostra la sua pelle bianca e burrosa, le gambe tornite, le labbra turgide. Materiale da piacere solitario e per chi può, carne lussuriosa di cui usufruire sul sofà del produttore o nel letto dell’uomo più importante del mondo. E’ la regina delle copertine, la diva più famosa, la donna più desiderata. Ma questa storia non è un piacevole passatempo da cinefili, questo film è un horror.
Sono stata lei tanti anni fa in una festa di Carnevale, indossavo una parrucca platinata e l'abito rosa di "Diamonds are the girls' best friends", per me era un'icona cinematografica, una leggenda di celluloide. Più altri avrei letto una bella autobiografia, "La mia vita", edita da Donzelli. 
Marilyn non esiste, lei si chiama Norma Jean e non ha mai smesso di essere la bambina senza padre, vittima sacrificale dell’isteria della madre, abbandonata in orfanotrofio nonostante avesse i genitori – l’esperienza più dolorosa, avere la certezza di essere stata rifiutata. La madre è una ferita affettiva aperta e insieme la minaccia di una tara genetica d’infelicità e follia.
Poi, scomparsa lei, attorno a Norma Jean per l’intera durata del film vediamo solo uomini. Norma è un bellissimo corpo gettato in pasto a maschi famelici, tra i quali cerca il padre sconosciuto, e il miraggio fiducioso dell’amore. Colpa di Marilyn, rinnegata dalla madre e di cui il padre, se la vedesse sui giornali, si vergognerebbe. 
Ci crede lo stesso nell'amore Norma, sempre. Con i perversi fratelli Chaplin, il passionale Joe e il protettivo Arthur (un Adrien Brody reincarnazione del vero Miller), con il fascinoso presidente John, che esercita la seduzione del potere. Ogni volta Norma Jean li ama visceralmente, chiede tenerezza e serenità. Riceve invece gelosia, controllo, compassionevole mansplaining – sesso, tanto. Instabile e spezzata, le spiegano con pazienza che per stare bene basterebbe affidarsi a loro come un delizioso soprammobile o un cucciolo mansueto: perché da sola non può farcela, rischia di provocare danni a se stessa e agli altri. 
Lei si adegua, si plasma. Recita un ruolo anche in amore, diventa l'archetipo femminile che il lui di turno desidera. Sorride e sbatte le ciglia. Si lascia indirizzare un turpiloquio pornografico, privo di complicità, brutalmente subìto. Prova a farsi ascoltare, a esprimere idee – ehi, non è così stupida, la bionda – ma poi torna al suo posto, altrimenti anche lui andrà via. Ciò che vuole è soltanto un amorevole daddy. E il suo baby mai nato: nel film l’aborto, raccontato con una rappresentazione onirica molto splatter, è un trauma lancinante, la fatale condanna a perdere l’ultima speranza di famiglia. Daddy e baby sono le parole di un’eterna ninna nanna, Norma Jean se le ripete per far avverare la profezia, arrivare all’agognato lieto fine della fiaba. Ma se nessuno è felice per lei, significa che a quel bambino non aveva diritto – o forse è stata Marilyn ad autorizzare la distruzione, il suo ventre non è fatto per contenere vita, non è una madre ma una femmina da possedere. L’ha implorata di non farlo, ma mentre Norma chiedeva pietà, Marilyn rideva.
Anche sul set Marilyn è un bellissimo corpo, un involucro delizioso e vuoto in modo rilassante, il perfetto equilibrio dal punto di vista di un uomo - a nessuno importa che sia in realtà una meravigliosa attrice (il cinema le dà un’identità, lì sa sempre con sicurezza chi è). Le guardano il sedere, l’ombra del pube sotto lo schermo leggero degli slip mentre la gonna si solleva nel celebre frame di “Quando la moglie è in vacanza”. Quella è la scena più agghiacciante del film - già sorretto da una fotografia mozzafiato, che bracca e tortura lo sguardo - nel crescendo di un incubo c'è esattamente uno stupro: uguali sono le incitazioni, la bestialità, l’inesorabile oggettificazione della preda, su cui c’è il presagio terrorizzante di un accanimento, di qualcosa di orrendo che stia per accadere.
Quegli sguardi lubrici le fanno schifo, ma Marilyn non sa rinunciarvi. Il corpo la legittima, la definisce. Oltre quello nessuno la vede: la bionda è la più amata ma il contratto più pagato va alla mora, a Jane Russell si riconosce pure il talento. La bionda non è credibile, la sua voce troppo sospirosa (era davvero così), le si chiede solo di spogliarsi. Marilyn si lascia dirigere, in fondo è un’attrice. Norma Jean odia quell’immagine, ne è devastata. Alla fine, esasperata e senza pace, non dirà più quei sì da bambina irrazionale e inerme. Quando il set si ferma lei urla, si divincola tra gli spasmi, sente il fiato sul collo degli errori, la disperazione di non andare mai bene com’è, la colpa di non essere riuscita a diventare quella che qualcuno avrebbe amato davvero. 
Se volete conoscere la vita di Marilyn questo non è il film giusto, anzi è completamente un'altra cosa. Tra flashback, alternanza di colore e bianco e nero, salti di tempo e stati allucinatori, è difficile orientarsi tra eventi e personaggi (tra l'altro, come si diceva, non tutti reali ma liberamente ispirati dalla biografia della star). Vedrete però l’inferno di una donna senza amore, ferita dagli uomini e dipendente da loro. 
E’ un film maschilista fino ad essere disturbante per una spettatrice, come pure irrita e fa rabbia la sottomissione (non di Marilyn, di una donna) a tanto degrado. La donna che qualcuna di noi forse in certi momenti è stata, che è ancora, che rischia di essere. 
La sua morte però è un atto estremo di ribellione.
 Il mio corpo si scioglierà in polvere, e non lo avrete mai più. E della mia anima nessuno potrà fare scempio.

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