Il signore delle formiche




Questa mia recensione del film "Il signore delle formiche" di Gianni Amelio è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud

Di solito un’opera d’arte che non mantiene il giusto distacco emotivo dal suo autore non funziona bene e, paradossalmente, pur essendo viscerale, spesso fallisce nella comunicazione con lo spettatore. “Il signore delle formiche” di Gianni Amelio potremmo dire sia l’eccezione che conferma la regola, perché è vero, chi parla di quello che profondamente lo riguarda è meno interessato allo sguardo del destinatario – e per questo l’opera in cui l’autore è imbrigliato, dai cui tormenti non ha preso le distanze, non riesce ad uscire fuori e diventare storia universale.
Nel caso di Amelio, il regista ha detto apertamente che il suo film su Aldo Braibanti, in concorso alla Mostra di Venezia e da ieri nelle sale cinematografiche, è autobiografico. E ha confidato di aver sofferto, per una sovrapposizione di eventi personali, durante la lavorazione, di essere stato infelice come lo fu il poeta e drammaturgo condannato per plagio vivendo un intenso amore, quello sì depredato e vilipeso dalla società e lo stato degli anni Sessanta. Ma l’empatia di Amelio qui non è un difetto, anzi al film fa molto bene: “Il signore delle formiche” trasuda bellezza e verità ed è attraversato da un’atmosfera dolorosa che tocca il cuore. La vicenda è quella del processo che divenne un caso, perché il poeta emiliano fu accusato di un reato fantasma, presente nel codice fascista Rocco ma mai approdato nei tribunali prima dell’imputazione a Braibanti, che era omosessuale e circondato da una fama di perverso seduttore di fanciulli. Al di là della comune esperienza amorosa, c’è molto di Amelio in questo spaccato di storia italiana: un personaggio che parla con marcato accento catanzarese emette la sua sentenza spiegando che “gli invertiti per me possono solo curarsi o ammazzarsi”, frase che il regista di San Pietro Magisano sentì da ragazzo. Negli anni Sessanta l’attrazione sessuale tra uomini suscitava schifo ed era una macchia disonorevole nella reputazione italica ultravirile edificata durante il ventennio (Ennio, il giornalista interpretato da Elio Germano, spiega che Mussolini non ammise l’inserimento dell’omosessualità tra i reati punibili perché avrebbe significato ammettere formalmente un’infiltrazione vergognosa nel mito del maschio).

Il film ripercorre i fatti riportandoci, con un flashback durissimo come un calcio ferrato dritto nello stomaco, nei tempi bui di un’Italia bigotta e arroccata ferocemente alle sue strutture morali, agonizzanti ma ossessivamente tiranniche, che lottava contro il cambiamento e l’equità sociale. La ricostruzione storica è accurata, con il sottofondo musicale dei cantautori americani ribelli, che tra i giovani contestatori facevano soffiare un vento di promesse nuove. Ci sono i militanti comunisti e l’ambiguità dei media, compresa l’Unità (qualcuno ha lamentato la rappresentazione ingenerosa del leggendario direttore Ferrara, che qui è opportunista e omofobo nel dettare la linea del giornale sull’ingiusto processo contro un compagno). C’è la solidarietà di intellettuali e politici (con un’immensa Emma Bonino che appare sullo schermo anticipando l’azione che il partito radicale avrebbe intrapreso per cancellare il reato di plagio). Ci sono i versi struggenti di Braibanti e la sua ricerca di mirmecologo che studiava nel legame tra le formiche il più esemplare modello di organizzazione sociale marxista. Ci sono due madri parallele: una terribile Medea che distrugge il proprio figlio, e una amorosa e dolcissima, che si chiama Susanna come la mamma di Pasolini.
In quell’Italia, lo sappiamo, l’omosessualità era una malattia e doveva essere repressa in finzioni di facciata o autoillusorie redenzioni. Chi come Braibanti o il musicista Vanni Castellani sceglieva di non nascondersi, sapeva già di dover subire un eterno marchio di spietata riprovazione. Amelio e il suo straordinario cast (tutti bravissimi, dal protagonista Luigi Lo Cascio, a Germano, il sorprendente Leonardo Montesi al debutto come attore, Sara Serraiocco, Anna Caterina Antonacci) fanno sentire la disperazione dell’essere gay in quell’epoca che millantava gli albori della rivoluzione sessuale ma era coriacea d’odio nei suoi rigurgiti reazionari. Allora non esistevano il bodyshaming e la psicoterapia on line, il gay pride erano i raduni nelle case della comunità di filosofi e gente di spettacolo, che partivano da una base di eccentricità connaturata e perdonabile ma lì, tra di loro, sulle note di Mina e Ornella Vanoni, si abbandonavano alle pose effeminate, i travestimenti, gli eccessi nell’apparenza e le movenze. Lo fanno perché si sentono liberi dal giudizio, dice Aldo a Ettore, che critica quel mondo. Ma il maestro e amato gli confessa una comunanza identitaria che, con la maturità, lo ha reso bonario verso urletti e parrucche, consapevole di essere talora apparso così senza accorgersene: lui non è come loro, ma è anche come loro. Gli omosessuali degli anni Sessanta sono malinconici, la loro condizione è quella di un’infinita solitudine. A farcela vedere al cinema in questo modo così struggente era riuscito soltanto Todd Haynes in “Lontano dal paradiso”. Devono soddisfare il desiderio fisico, come chiunque altro, ma per farlo pagano o si espongono al rischio del ricatto e della violenza, all’umiliazione delle offese. L’amore è una rara benedizione luminosa che non sembra vera, o forse fa solo paura che finisca e faccia troppo male – la paura di tutti.
Guardando il film – la cui campagna promozionale ha giustamente puntato sulla tematica e il caso storico – è subito chiaro proprio questo, cioè che “Il signore delle formiche” è la storia di un grande amore. Fatto di poesia e di sguardi, purissimi e travolgenti. Chi ama o ha amato, a qualunque sesso appartenga, non può non notarlo, è lì ed è esattamente quello. Braibanti in aula sceglie il trattamento del silenzio. Non si difende perché l’amore non è una colpa – e non è una devianza, etichetta che oggi torna pericolosamente ad aleggiare su ogni situazione che diverge da quello a cui siamo abituati a vedere. Questo film dovrebbe farci pensare con sollievo che non siamo più negli anni oscurantisti in cui un uomo fu condannato a nove anni di carcere perché si era innamorato di un altro uomo, maggiorenne e che lo ricambiava. Le cose, da allora, per fortuna sono molto cambiate. Ma dobbiamo difenderle, perché le ombre di quel buio non sono ancora scomparse.

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