José Saramago, l'umanità è un grande romanzo
Riposto qui questo mio ricordo dello scrittore premio Nobel José Saramago nel centenario della nascita, che è stato pubblicato nell'inserto culturale Mimì del Quotidiano del Sud L'altra Voce dell'Italia
Ricevendo il Nobel nel 1998, Josè Saramago spiegò che l’unica voce che possedeva era quella dei personaggi dei suoi libri: “Sono i miei maestri, quelli che più intensamente mi hanno insegnato il duro lavoro di vivere”, ammise davanti ai rappresentanti dell’Accademia svedese. Nel centenario della nascita - il 16 novembre 1922 nel villaggio di Azinhaga, in una famiglia di agricoltori - al di là di tributi e celebrazioni, quei personaggi, di cui si sentì inventore e creatura, sono l’unica eredità che riconosceva. Chiedendo perdono se a qualcuno sembrasse poco “questo che per me è tutto”.
In questo archivio di umanità divenuta letteratura ci sono Baltazar e Blimunda, gli amanti del “Memoriale del convento”, libro galeotto tra lo scrittore portoghese e la giornalista spagnola Pilar del Rio, che volle intervistarlo dopo essere stata folgorata da questo romanzo che parla di anime gemelle (quale migliore yin e yang di due soprannominati, da chissà quale oracolo, Sette Soli e Sette Lune, reciprocamente necessari) e macchine che, in piena Inquisizione, osano volare in cielo alimentate dalla volontà umana. In quel primo incontro, José le propose di visitare il cimitero di Prazeres, dove è sepolto Fernando Pessoa. Si scambiarono i numeri come accade in ogni germinale promessa di attrazione, e iniziarono una corrispondenza che si concluse con un biglietto, dove lui scriveva: “Se le circostanze della sua vita lo permettessero, desidererei rivederla”. Pilar aveva 38 anni, Saramago 63, ma un anno dopo furono insieme, poi si sposarono. Per lo scrittore era il secondo matrimonio, e durò per sempre.
Dai nonni, che mai lessero i suoi romanzi perché analfabeti, apprese una visione del mondo lungo direttrici opposte ma capaci di una prodigiosa intersezione, la terra e il sogno: Jeronimo e Josefa si occupavano delle loro bestie con una sollecitudine utilitaristica, per garantirsi il pane; lui raccontava storie paurose e lei le ridimensionava come innocue fantasie. In “Una terra chiamata Alentejo” c’è l’epopea familiare dei Mal Tempo, che nelle sconfinate pianure meridionali attraversa tre generazioni arrivando alle porte della rivoluzione del 1974 e la promessa di una nuova società.
Il Covid ha oggi trasformato “Cecità”, il capolavoro distopico di José Saramago, in un vaticinio. Nel romanzo una misteriosa epidemia rende gli uomini ciechi e li condanna a un bestiale isolamento coatto. Eravamo già ciechi, o contagiati, senza saperlo, abbiamo alimentato il virus dell’egoismo con l’avallo di un potere iniquo.
Fu un ateo tenace. Già eroso dalla leucemia, Saramago era scampato a un infarto, ma questo non gli instillò, come spesso accade in questi casi, una fede tardiva e illusoria. Si era salvato per merito del suo cuore forte, spiegava lui, ché Dio non ha mai ascoltato le preghiere degli uomini. Lasciò la patria portoghese, dove era stato coriaceo oppositore della dittatura, solo dopo gli attacchi all’apocrifo “Vangelo secondo Gesù Cristo” e a quel Profeta nato da un rapporto sessuale dei genitori, sporco di sangue materno. Quando Antonio Sousa Lara, sottosegretario alla cultura portoghese, bollò il romanzo come blasfemo e offensivo per i paesi cattolici, Saramago se ne andò, anche se sapeva che Lisbona sarebbe rimasta una ferita aperta nel petto. Non avrebbe accettato di vivere, di nuovo, in un paese senza libertà. Si era iscritto in clandestinità al Partito Comunista nel 1969, durante il regime di Salazar, era sfuggito a ispezioni e arresti e non cambiò mai idea. Aveva creduto nella rivoluzione dei Garofani, non era uno a cui si potessero propinare esigenze di rinnovamento e balletti di nomi e simboli. Soleva definirsi un “marxista ormonale”, paragonando l’ideologia alla barba che gli cresceva sulle guance ogni mattina. Per questo, nonostante tutto, mantenne la tessera del partito. Il comunismo era il suo dna, non poteva controllarlo, anche a costo di una consapevole dose di amara utopia. “Rimarrò sempre insonne – diceva - se penso alle dittature, alle crociate, alle inquisizioni”.
A Lanzarote soffiava un vento oceanico, scrisse lì “Cecità”. L’isola delle Canarie dove si trasferì con Pilar fu per quindici anni un approdo sereno, ma l’esilio volontario di Saramago ci consegna un’altra verità sull’animo umano. Esiste un richiamo profondo, un dogma di tessuti, cellule e anche luoghi. Che sia una madre che ci ha abbandonati o un figlio che ci ha traditi, delle radici non ci liberiamo mai. Le ceneri dello scrittore sono a Lisbona, in un’urna seppellita sotto un ulivo nel giardino della Casa dos Bicos, sede della fondazione che porta il suo nome, presieduta dalla moglie.
Oggi amministratrice del lascito letterario di Josè (da cui ha riesumato postumo il primo romanzo, “La vedova”, scritto a 24 anni e maneggiato dalla censura portoghese, quest’anno pubblicato per la prima volta in Italia), Pilar, traduttrice, divenne la voce spagnola delle opere di Saramago. La rivalità campanilistica tra gli stati iberici era una delle idiozie che mandavano in bestia lo scrittore. Considerava Portogallo e Spagna un’unica terra e per una bizzarra casualità, il matrimonio di Josè e Pilar fu celebrato in entrambi gli stati. A Lisbona dimenticarono di registrare l’atto, che rimase legalmente nullo oltre vent’anni. Ripeterono la cerimonia civile a Granata, città natale della sposa. La circonferenza dei due riti sigillava i due paesi, come loro già facevano con le parole.
Del Portogallo Saramago non comprendeva la testarda resistenza ai cambiamenti. Nella “Zattera di pietra” la penisola iberica si stacca dall’Europa per intraprendere un solitario viaggio indipendentista. Ma mentre procede, non può evitare di mutare continuamente forma.
La cifra di José Saramago è l’allegoria, un benevolo divertissement di satira e romanticismo. Al Portogallo dedicò anche la fiaba del “Viaggio dell’elefante”. Qui, nell’epoca della Controriforma, il pachiderma Salomone – nomen omen – è il maestoso dono che il re portoghese invia all’arciduca austriaco Massimiliano. L’elefante attraversa l’Europa diretto a Vienna, con una pittoresca scorta di soldati, clerici e il custode indiano Subhro, lungo un percorso avventuroso tra mare e montagna: certi popoli lo venerano come una divinità, altri ne hanno terrore. Neanche a dirlo, esorcismi e superstizioni sono attizzati dai sacerdoti.
Saramago aveva il vizio inguaribile di osservare la storia e gli eventi. Il pensiero non è inutile, mai e soprattutto in tempi di barbarie. Ecco perché i suoi romanzi, le opinioni e le critiche, raccontano alla perfezione del nostro presente. Nel “Saggio sulla lucidità” immaginò elezioni dove le schede votate sono bianche, persino quelle di politici e candidati. Un nichilismo scioccante da parte di uno strenuo sostenitore del diritto di espressione, ma Saramago attraversò anche un periodo anarchico. Odiava il perbenismo e non aveva indole alla piaggeria. Contrario alla politica di Israele, turbò tutti dicendo che gli ebrei non avevano imparato dal dolore degli avi e che le stragi di palestinesi fossero un orrore paragonabile ad Auschwitz. Ne ebbe anche per l’Italia rivolgendo a Berlusconi, nei “Quaderni”, la ciceroniana esortazione censurata da Einaudi: “Fino a quando abuserai della nostra pazienza?” Scoprì la comunicazione istantanea del web. Caduto il bastione di doverosa diffidenza da anziano, gli piacque tenere un blog virtuale, concedendosi però il disprezzo per quel termine anglofono, che trovava bruttissimo.
Il combattivo Saramago si arrese docilmente all’assedio della vecchiaia e della morte, e non per scarso attaccamento alla vita. Da nonna Josefa aveva imparato che morire, lasciando un mondo aspro ma pieno di bellezza, è essenzialmente un peccato. Nelle “Intermittenze della morte” la Signora con la falce entra in sciopero: in una città si celebra la conquista dell’immortalità ma sorgono problemi pratici, dalle case di riposo oberate da ospiti decrepiti ma eterni, all’angoscia della Chiesa, che non può più elargire la lusinga del regno dei cieli. Quando la mafia appalta l’affare, la Morte riprende le redini della faccenda, ma s’innamora di un violoncellista. Dopo una notte di passione, “il giorno dopo non morì nessuno”.
Nella grande villa bianca di Tias trasformata in museo c’è un’immensa biblioteca di ventiduemila libri, donata alla gente di Lanzarote. La scrivania di Saramago ha le gambe solcate dai denti dei suoi adorati cani, gli orologi sono fermi alle 16, ora in cui conobbe Pilar. L’epitaffio di Baltazar recita: “Non salì alle stelle, se alla terra apparteneva”. Ancorato al suolo è il corpo che ama, soffre, invecchia. La scrittura sale aerea, mappa di frasi lunghissime dove la punteggiatura è rarefatta. Nel realismo fantastico di Saramago non serve nemmeno l’anagrafe. In “Tutti i nomi”, che considerava il suo romanzo più bello, c’è un omino incolore, che si chiama José, e indagando sull’identità di una donna trova il significato dell’esistenza. Le parole sono pietre allineate nel guado di una distanza, e quello che conta è raggiungere la sponda opposta, andare verso l’altro.
Leggere e scrivere non sono azioni innocenti. Entrambe ci portano un po’ più in là di dove eravamo prima.
Ricevendo il Nobel nel 1998, Josè Saramago spiegò che l’unica voce che possedeva era quella dei personaggi dei suoi libri: “Sono i miei maestri, quelli che più intensamente mi hanno insegnato il duro lavoro di vivere”, ammise davanti ai rappresentanti dell’Accademia svedese. Nel centenario della nascita - il 16 novembre 1922 nel villaggio di Azinhaga, in una famiglia di agricoltori - al di là di tributi e celebrazioni, quei personaggi, di cui si sentì inventore e creatura, sono l’unica eredità che riconosceva. Chiedendo perdono se a qualcuno sembrasse poco “questo che per me è tutto”.
In questo archivio di umanità divenuta letteratura ci sono Baltazar e Blimunda, gli amanti del “Memoriale del convento”, libro galeotto tra lo scrittore portoghese e la giornalista spagnola Pilar del Rio, che volle intervistarlo dopo essere stata folgorata da questo romanzo che parla di anime gemelle (quale migliore yin e yang di due soprannominati, da chissà quale oracolo, Sette Soli e Sette Lune, reciprocamente necessari) e macchine che, in piena Inquisizione, osano volare in cielo alimentate dalla volontà umana. In quel primo incontro, José le propose di visitare il cimitero di Prazeres, dove è sepolto Fernando Pessoa. Si scambiarono i numeri come accade in ogni germinale promessa di attrazione, e iniziarono una corrispondenza che si concluse con un biglietto, dove lui scriveva: “Se le circostanze della sua vita lo permettessero, desidererei rivederla”. Pilar aveva 38 anni, Saramago 63, ma un anno dopo furono insieme, poi si sposarono. Per lo scrittore era il secondo matrimonio, e durò per sempre.
Dai nonni, che mai lessero i suoi romanzi perché analfabeti, apprese una visione del mondo lungo direttrici opposte ma capaci di una prodigiosa intersezione, la terra e il sogno: Jeronimo e Josefa si occupavano delle loro bestie con una sollecitudine utilitaristica, per garantirsi il pane; lui raccontava storie paurose e lei le ridimensionava come innocue fantasie. In “Una terra chiamata Alentejo” c’è l’epopea familiare dei Mal Tempo, che nelle sconfinate pianure meridionali attraversa tre generazioni arrivando alle porte della rivoluzione del 1974 e la promessa di una nuova società.
Il Covid ha oggi trasformato “Cecità”, il capolavoro distopico di José Saramago, in un vaticinio. Nel romanzo una misteriosa epidemia rende gli uomini ciechi e li condanna a un bestiale isolamento coatto. Eravamo già ciechi, o contagiati, senza saperlo, abbiamo alimentato il virus dell’egoismo con l’avallo di un potere iniquo.
Fu un ateo tenace. Già eroso dalla leucemia, Saramago era scampato a un infarto, ma questo non gli instillò, come spesso accade in questi casi, una fede tardiva e illusoria. Si era salvato per merito del suo cuore forte, spiegava lui, ché Dio non ha mai ascoltato le preghiere degli uomini. Lasciò la patria portoghese, dove era stato coriaceo oppositore della dittatura, solo dopo gli attacchi all’apocrifo “Vangelo secondo Gesù Cristo” e a quel Profeta nato da un rapporto sessuale dei genitori, sporco di sangue materno. Quando Antonio Sousa Lara, sottosegretario alla cultura portoghese, bollò il romanzo come blasfemo e offensivo per i paesi cattolici, Saramago se ne andò, anche se sapeva che Lisbona sarebbe rimasta una ferita aperta nel petto. Non avrebbe accettato di vivere, di nuovo, in un paese senza libertà. Si era iscritto in clandestinità al Partito Comunista nel 1969, durante il regime di Salazar, era sfuggito a ispezioni e arresti e non cambiò mai idea. Aveva creduto nella rivoluzione dei Garofani, non era uno a cui si potessero propinare esigenze di rinnovamento e balletti di nomi e simboli. Soleva definirsi un “marxista ormonale”, paragonando l’ideologia alla barba che gli cresceva sulle guance ogni mattina. Per questo, nonostante tutto, mantenne la tessera del partito. Il comunismo era il suo dna, non poteva controllarlo, anche a costo di una consapevole dose di amara utopia. “Rimarrò sempre insonne – diceva - se penso alle dittature, alle crociate, alle inquisizioni”.
A Lanzarote soffiava un vento oceanico, scrisse lì “Cecità”. L’isola delle Canarie dove si trasferì con Pilar fu per quindici anni un approdo sereno, ma l’esilio volontario di Saramago ci consegna un’altra verità sull’animo umano. Esiste un richiamo profondo, un dogma di tessuti, cellule e anche luoghi. Che sia una madre che ci ha abbandonati o un figlio che ci ha traditi, delle radici non ci liberiamo mai. Le ceneri dello scrittore sono a Lisbona, in un’urna seppellita sotto un ulivo nel giardino della Casa dos Bicos, sede della fondazione che porta il suo nome, presieduta dalla moglie.
Oggi amministratrice del lascito letterario di Josè (da cui ha riesumato postumo il primo romanzo, “La vedova”, scritto a 24 anni e maneggiato dalla censura portoghese, quest’anno pubblicato per la prima volta in Italia), Pilar, traduttrice, divenne la voce spagnola delle opere di Saramago. La rivalità campanilistica tra gli stati iberici era una delle idiozie che mandavano in bestia lo scrittore. Considerava Portogallo e Spagna un’unica terra e per una bizzarra casualità, il matrimonio di Josè e Pilar fu celebrato in entrambi gli stati. A Lisbona dimenticarono di registrare l’atto, che rimase legalmente nullo oltre vent’anni. Ripeterono la cerimonia civile a Granata, città natale della sposa. La circonferenza dei due riti sigillava i due paesi, come loro già facevano con le parole.
Del Portogallo Saramago non comprendeva la testarda resistenza ai cambiamenti. Nella “Zattera di pietra” la penisola iberica si stacca dall’Europa per intraprendere un solitario viaggio indipendentista. Ma mentre procede, non può evitare di mutare continuamente forma.
La cifra di José Saramago è l’allegoria, un benevolo divertissement di satira e romanticismo. Al Portogallo dedicò anche la fiaba del “Viaggio dell’elefante”. Qui, nell’epoca della Controriforma, il pachiderma Salomone – nomen omen – è il maestoso dono che il re portoghese invia all’arciduca austriaco Massimiliano. L’elefante attraversa l’Europa diretto a Vienna, con una pittoresca scorta di soldati, clerici e il custode indiano Subhro, lungo un percorso avventuroso tra mare e montagna: certi popoli lo venerano come una divinità, altri ne hanno terrore. Neanche a dirlo, esorcismi e superstizioni sono attizzati dai sacerdoti.
Saramago aveva il vizio inguaribile di osservare la storia e gli eventi. Il pensiero non è inutile, mai e soprattutto in tempi di barbarie. Ecco perché i suoi romanzi, le opinioni e le critiche, raccontano alla perfezione del nostro presente. Nel “Saggio sulla lucidità” immaginò elezioni dove le schede votate sono bianche, persino quelle di politici e candidati. Un nichilismo scioccante da parte di uno strenuo sostenitore del diritto di espressione, ma Saramago attraversò anche un periodo anarchico. Odiava il perbenismo e non aveva indole alla piaggeria. Contrario alla politica di Israele, turbò tutti dicendo che gli ebrei non avevano imparato dal dolore degli avi e che le stragi di palestinesi fossero un orrore paragonabile ad Auschwitz. Ne ebbe anche per l’Italia rivolgendo a Berlusconi, nei “Quaderni”, la ciceroniana esortazione censurata da Einaudi: “Fino a quando abuserai della nostra pazienza?” Scoprì la comunicazione istantanea del web. Caduto il bastione di doverosa diffidenza da anziano, gli piacque tenere un blog virtuale, concedendosi però il disprezzo per quel termine anglofono, che trovava bruttissimo.
Il combattivo Saramago si arrese docilmente all’assedio della vecchiaia e della morte, e non per scarso attaccamento alla vita. Da nonna Josefa aveva imparato che morire, lasciando un mondo aspro ma pieno di bellezza, è essenzialmente un peccato. Nelle “Intermittenze della morte” la Signora con la falce entra in sciopero: in una città si celebra la conquista dell’immortalità ma sorgono problemi pratici, dalle case di riposo oberate da ospiti decrepiti ma eterni, all’angoscia della Chiesa, che non può più elargire la lusinga del regno dei cieli. Quando la mafia appalta l’affare, la Morte riprende le redini della faccenda, ma s’innamora di un violoncellista. Dopo una notte di passione, “il giorno dopo non morì nessuno”.
Nella grande villa bianca di Tias trasformata in museo c’è un’immensa biblioteca di ventiduemila libri, donata alla gente di Lanzarote. La scrivania di Saramago ha le gambe solcate dai denti dei suoi adorati cani, gli orologi sono fermi alle 16, ora in cui conobbe Pilar. L’epitaffio di Baltazar recita: “Non salì alle stelle, se alla terra apparteneva”. Ancorato al suolo è il corpo che ama, soffre, invecchia. La scrittura sale aerea, mappa di frasi lunghissime dove la punteggiatura è rarefatta. Nel realismo fantastico di Saramago non serve nemmeno l’anagrafe. In “Tutti i nomi”, che considerava il suo romanzo più bello, c’è un omino incolore, che si chiama José, e indagando sull’identità di una donna trova il significato dell’esistenza. Le parole sono pietre allineate nel guado di una distanza, e quello che conta è raggiungere la sponda opposta, andare verso l’altro.
Leggere e scrivere non sono azioni innocenti. Entrambe ci portano un po’ più in là di dove eravamo prima.
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