The Whale
Quando la scena arriva, lo capiamo subito quello che sta accadendo, ma ormai siamo lì, colpiti dallo spannung in modo violentissimo e scioccante. Vediamo l’obeso Charlie ingurgitare cibo riempiendo il suo corpo gonfio e agonizzante con altro veleno. Lo vediamo infilare in bocca tranci di pizza, pancarré farciti di patatine e innaffiati di maionese, scartare confezioni di snack e cioccolata, ed è subito chiaro che assistiamo alla messa in atto di un suicidio: non diversamente dello spararsi a una tempia o mandare giù un flacone di pillole, quell’uomo si sta infliggendo un male letale, sta torturandosi fino alla morte. Ma capiamo anche che lo non vuole, eppure non può evitarlo e, come posseduto da un demone, continua a mangiare.
E’ il momento più forte, quasi insopportabile, di “The Whale”, il film di Darren Aronofsky con Brendan Fraser, candidato all’Oscar per questo ruolo nel quale ha infuso molto della sua esperienza personale di discesa emotiva e psicofisica nell’abisso della depressione – così come qualcosa di quell’uomo che si uccide dilatando il suo corpo fino a trasformarlo in un’asfissiante prigione di grasso, edemi e piaghe, la ritroviamo anche in noi stessi quando dichiariamo resa totale al dolore e siamo inani a reagire. L’insegnante Charlie è la balena del titolo, il mostro bianco e insenziente Moby Dick, contro cui il capitano Achab combatte, ossessionato dalla vittoria su quel mitico nemico per non sentire la sofferenza della sua condizione di vita. A dare quest’interpretazione del romanzo di Melville in un geniale tema è Elly (Sadie Sink), figlia che Charlie ha lasciato sola con la madre quando la bambina aveva 8 anni, seguendo la travolgente passione per lo studente Alan, che diventerà l’amore della sua vita. Ormai adolescente, Elly si riavvicina al padre per ottenere un aiuto scolastico, e la circostanza le permette di riversare su Charlie rancore, rabbia e disprezzo verso il genitore che l’ha abbandonata. Il mostruoso cetaceo è orribile, non soffre e non prova niente, scrive la ragazza, e anche l’ossessiva caccia di Achab è un anestetico per rinviare il più possibile la presa di coscienza della sua infelicità. Achab che divide il letto con un uomo. Queste parole risuonano nella testa e nel cuore di Charlie, fanno scattare il trigger che lo getta nella disperazione, nel pianto, nell'impietosa sevizia del cibo. Ma lui continua ad essere convinto che nella gente alberghi un'incompresa bontà, che infine noi siamo incapaci di non amare. E’ forse l’incrollabile certezza di chi l’amore l’ha conosciuto, e anche se Charlie ha perso tragicamente il compagno e quell’assenza ha causato la sua autodistruzione quasi giunta a compimento, resta in lui la benedizione di un dono straordinario, che non tutti ricevono.
Nella storia aleggia un segreto, quindi se avete mantenuto la saggezza di non leggere in giro, qui niente spoiler. I personaggi del film sono in lotta con la loro identità e attraversano menzogne e finzioni finché un evento dirompente li costringe a uscire allo scoperto. Dovrebbe essere una liberazione, invece la felicità, se coincide con desideri e aspirazioni socialmente disdicevoli, si paga a caro prezzo (a proposito: guardando il film è agghiacciante riflettere su quanto infinitesimale sia stato finora il cammino dei diritti umani se ancora si può morire per aver dichiarato la propria natura). Charlie sta soffocando non soltanto sotto il peso fisico ma anche per un senso di colpa lancinante, impossibile da eludere o emendare, come la consapevolezza delle ferite che il proprio egoismo ha inferto alle persone amate o che lo hanno amato. I personaggi si nascondono: Charlie dietro il quadrato nero della telecamera spenta durante le sue lezioni on line, Liz (Houng Chau, anche lei candidata all’Oscar) nella sfiancante premura verso l’amico morente, il giovane Thomas in un’esaltata missione biblica di salvezza. Unica oasi di brutale, istintiva sincerità è Elly, che compirà un miracolo per il padre e per sé. “The Whale” è un film dolente eppure percorso da un’inestinguibile possibilità di grazia, quella che la vita, anche quando tutto sembra perduto, concede a tutti - attenzione, non sempre si riesce ad afferrare, non tutti ce la fanno.
E' una storia di sconfitte e cicatrici inguaribili: Charlie dalla vita è stato sferzato e ha imparato a praticare il cinismo, ma continua a piangere quando affiorano i ricordi e quando vede vicinissima quella fine che gli lascerebbe dietro cadaveri, malanimo e l'eterna certificazione di essere stato una cattiva persona. Brendan Fraser, che da anni non è più l’avventuriero belloccio Rick O’Donnell della saga della Mummia, è da applauso per il coraggio di tornare sulle scene con addosso una pesantissima tuta in materiale termico (per dargli sollievo veniva rinfrescato con pompe ad aria interne) e lunghe sedute di prosthetic make up, il trucco che gli ha ricostruito il viso. Non lo vediamo mai com'è davvero perché il Charlie del passato, di prima dell'obesità, si intuisce da flashback dove è sempre sullo sfondo, lontano, impercettibile (una fotografia, un ricordo del passato immerso in una luce abbacinante che lo confonde con un sogno, con qualcosa che non è mai esistita). I nostri occhi devono subirlo com'è nella fase terminale, sfatto, molle, purulento, essudante di odori stantii.
Se vincesse l’Oscar, Fraser potrebbe non salire sul palco a ritirarlo: un gran rifiuto che aveva già annunciato per la candidatura al Golden Globe, perché questo è anche un film sulla grassofobia, una delle tante forme con cui la società repelle chi ha un aspetto diverso dalla norma, che suscita paura e avversione. Celebrare il personaggio di Charlie e continuare a provare schifo per la visione di un obeso somiglierebbe a un trionfo dell’ipocrisia. Quando il docente decide di accendere la telecamera e mostrarsi ai suoi studenti, i loro sguardi turbati ci inchiodano a un nostro inconfessabile pregiudizio, palese o latente che sia. Charlie lo chiede spesso nel film: vi faccio schifo? Lo chiede in modo così incalzante da costringere l’interlocutore a una risposta crudele e tristemente prevedibile. Ma nessun obeso smette mai di credere che un giorno qualcuno potrà dire di no, che potrà davvero amarlo.
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