Di violenza, genitori, figli e donne sotto accusa



Chi scrive ha urgenza di conoscere, capire, entrare nelle pieghe dell’umanità. Sono andata a guardare i profili social dei ragazzi del branco di Palermo, e in quello del più giovane ho cercato a ritroso nelle foto del passato. Come tutti, le sue parole brutali e il racconto della notte in cui i sette hanno infierito sulla diciannovenne mi hanno messo i brividi. Eppure davanti a quelle foto non sono riuscita a trattenere un moto di profonda tristezza, di pietà. Perché quel ragazzo accusato di stupro pochi anni fa era non molto diverso da mio figlio: la stessa faccia da bambino, lo stesso corpo magro dai muscoli abbozzati che cresce dentro magliette larghe, e poi le smorfie insieme a compagni e compagne di scuola con gli sguardi di finta spavalderia di chi cerca il suo posto nel mondo. Ecco, se non sapessi nulla dell’orrore di Palermo e vedessi ora quelle foto penserei a un ragazzino come tanti, simile agli amichetti di mio figlio. Penserei anche: come cambiano in fretta, tra poco anche il mio piccolo sarà un giovane uomo.

Invece quel figlio di un’altra madre è oggi diventato uno stupratore. Uno che si vanta della violenza commessa, che ride della sofferenza di una ragazza ridotta a carne da usare per divertimento e illusione di potenza. Ho subito ricacciato dalla mente il pensiero che mi aveva attraversata e mi sono detta che mio figlio non farà mai una cosa del genere. Ma pochi anni fa erano entrambi due preadolescenti, candidi e ribelli, un giorno strepiti e l’altro scuse e abbracci alla mamma. Uno, già adulto, ha commesso un bestiale reato. L’altro è mio figlio, e io metterei la mano sul fuoco pensando al suo futuro. Non sarà mai così, non vedrò mai questo abisso nero.

Ma se davvero accadesse a me? Ho immaginato tante volte a cosa farei se fossi madre di uno di questi ragazzi, o di Apache, o di Alessandro Impagnatiello. Qualcuno – una donna – ha scritto che la madre di Impagnatiello non avrebbe dovuto definirlo un mostro, che di un figlio non si può mai pensare una cosa così. Qualcun altro si è indignato per la disperata e ingiusta difesa della madre di uno degli stupratori siciliani, che per scagionare il ragazzo ha suggerito una versione dei fatti in cui la donna violentata è una “poco di buono”, una che ci stava ed era consenziente.

Io non so quale sia la reazione giusta – se ce ne sia una. Non difenderei mai un figlio capace di fare del male, stuprare, uccidere. Forse non lo farei neanche se rubasse, perché considero i ladri una delle categorie umane più infime. Penserei che è un mostro? Non lo so. Che è colpa mia per averlo generato? Mi vengono in auto letteratura e cinema. Nel romanzo di Lionel Shriver “Dobbiamo parlare di Kevin” la voce narrante di Eva racconta la sua vita con il figlio, che sin da piccolissimo ha rivelato una natura crudele e fredda, determinata a infliggere il male. Questa storia è l’immersione nell’inferno privato di una donna che porta addosso lo stigma sociale di cattiva madre, colpevole della condizione psicotica e poi della violenza omicida del figlio. Eva, a differenza del marito, vede subito il guasto nella personalità di Kevin e non la nega. Cerca anche di arginarla e correggerlo, invano. Ma la distruzione portata dal ragazzo nelle loro vite non è abbastanza per far germogliare odio e neanche disprezzo: su ogni maceria emotiva rimane incrollabile l’amore materno, capace infine di sciogliere il ghiaccio di un cuore malvagio.

Eva prova una fortissima pietas verso il figlio anaffettivo e capace di orribili atti violenti. E sì, sente bruciare a fuoco il marchio della colpa. Nel bel film di Barbet Schroeder “Prima e dopo” c’è invece lo scontro tra due genitori che affrontano in modo opposto la situazione di un figlio sedicenne accusato di femminicidio. Lui, Liam Neeson, pur consapevole della responsabilità del ragazzo, vuole salvare la sua giovinezza condannata a consumarsi nel carcere e arriva a costruire un’architettura di falsità per far cadere le accuse. E’ pronto persino a prendersi la colpa per non bollare il figlio come assassino. Lei, Meryl Streep, pensa alla ragazza uccisa e alla sua famiglia. E con il cuore spaccato in due decide di non aiutare il marito nel suo piano, che finirà con la condanna alla reclusione sia del ragazzo che del genitore per occultamento delle prove.

Ho guardato anche le pagine social della ragazza stuprata. Prima delle esternazioni di Giambruno già sapevo che la sua esuberanza fisica e quella sfrontatezza di gesti e allusioni (che a quell’età è tutta posa, un’imitazione di stupidi modelli virtuali che non corrisponde quasi mai alla vera indole della persona) avrebbero emanato l’odore del sangue per le iene da tastiere. La sua vicenda è drammaticamente significativa perché ci restituisce in modo esatto la divaricazione tra la vita degli uomini e quella delle donne. C’è una ragazza appariscente e che ama esibire la sua bellezza, che gioca a provocare. Forse è una ragazza che ha avuto molti partner e fidanzati, forse nel suo giro i bene informati conoscono le sue storie, che poi chissà se circolano per quel che realmente sono o prendono nuove forme amplificate, come nel telefono senza fili. Quella sera potrebbe aver scherzato con i suoi aggressori, o persino flirtato con quello che già conosceva. 
Tutte cose che per i maschi sono routine e non comportano epiteti offensivi o l’essere considerati persone da avvicinare aspettandosi compiacenza sessuale. Negli stupri però queste etichette denigratorie diventano una bomba a mano che esplode nelle mani delle vittime. Basta un video ammiccante (sarebbe più facile trovare chi non ne fa) per ribaltare la situazione e presumere un consenso. Una come quella lo voleva. Una che beve e si fa foto in bikini succinti ci sta, io non avevo capito. Incredibilmente sappiamo che questo tipo di discolpa ha spesso vinto in tribunale. L’onere della prova è ribaltato. Il temperamento, gli abiti, le parole e la vita privata della vittima diventano corpi (nel senso letterale del termine) del reato: anche a fronte di lesioni e referti medici, se è sexy, libera, esce la sera da sola e ama i drink è la donna violentata a dover dimostrare di essere stata costretta. Ma, proprio perché è lei, nessuno le crederà. Come, all’opposto, una vergognosa sentenza decretò che non c’era stato stupro perché l’accusatrice era brutta, quindi nessun uomo l’avrebbe concupita tanto da obbligarla all’atto fisico.

La violenza sessuale è stata per lunghissimi anni un reato contro la morale, come se la vittima non esistesse o fosse un oggetto di consumo – anzi lo strumento malefico che induceva un uomo a turbare il pubblico decoro. Ma agli stupratori continua a non piacere farsi incriminare per la denuncia di una donna. Continuano a ritenere un affronto la volontà di una donna di interrompere un rapporto sessuale o negarsi dopo i preliminari. L’intimità è preziosa e sacra. Perché una persona dovrebbe sottomettersi a modi violenti, a richieste che disgustano, solo perché arrivano da un marito o da un uomo da cui si è attratte e che poi si scopre essere sessualmente aggressivo o sgradevole? Riuscite a immaginare quanto terribile, e spaventosa, sia un’esperienza del genere? Quanto schifo e dolore susciti? L’unica prova di uno stupro è la parola no. 
Il branco di Palermo mi ricorda quello di “Sotto accusa”, anche lì Jodie Foster era la bionda ubriaca che ballava strusciandosi addosso a un ragazzo carino che quella sera voleva portarsi a letto, aveva confidato alla sua amica. Poi in realtà era un cazzeggio, il dispetto al fidanzato con cui c’era stato un litigio. Una scemenza per fare scena, come su TikTok. Si è trovata gatta sotto cento cani. Quella sotto accusa è lei. Cosa hai detto per fermarli? – le chiedono al processo. Dicevo “no”. 
Quando Giulia e il suo bambino mai nato sono stati uccisi abbiamo gridato che lo sapevamo tutte. Ora, come nella bacheca di Ermal Meta, raccontiamo tutte che almeno una volta ci è capitato. Di essere molestate, toccate contro la nostra volontà, seguite, braccate. Di aver detto no senza che questa fosse l'unica sillaba che fa da spartiacque tra consenso e violenza. 

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