Familia


Più il cinema racconta la violenza di genere e i femminicidi, rappresentandola o facendola vedere, meglio è. Ovviamente la differenza è il come, in un terreno minato dove l’immagine o la parola sbagliata possono fare danni e alimentare tutto l’apparato sociale e psicologico che ne è all’origine. Il patriarcato, parola invisa ormai più dell’ingiustamente vituperata resilienza, ma che rimane bolla elastica e indistruttibile del fenomeno: era l’ambientazione di “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi ed è anche letteralmente il tema centrale del bellissimo film di Francesco Costabile “Familia”. Una storia agghiacciante e verissima che parla di padri e del male che possono infliggere ai figli, con ferite spesso inguaribili fino alla rovina assoluta o la morte.
 
Il premiato film di Cortellesi sceglie la via di una surreale leggerezza per inserire la vicenda privata della protagonista, moglie di un uomo violento e padrone, in una pagina storica cruciale per le donne. Femminismo e politica si intrecciano in un’opera necessaria, schierata, esposta come la sua autrice: il pubblico la odia o la ama, senza mezze misure, e fa il tifo per la sua eroina cinematografica, ride, si commuove o si erge da cattedre intellettualoidi per fare le pulci.

Il caso di “Familia” è completamente diverso. Impossibile vedere questo film senza essere tirati dentro l’inferno domestico dei Celeste, una famiglia reale nella quale il figlio minore Luigi ha ucciso il padre dopo anni di violenze e vessazioni per proteggere se stesso, il fratello e soprattutto la madre.
Il regista cosentino è reduce da un esordio di quelli tosti, con “Una femmina”, presentato all’ultima Berlinale, si era addentrato nell’oscurità della Famiglia maligna per eccellenza, quella malavitosa di una Calabria arcaica e oppressiva. Patriarcato che lievitava nella forma mostruosa dei legami d’onore e la sottomissione femminile da cui una giovane decide di liberarsi, lei per tutte, aprendo una strada di cambiamento. Una storia nera, possiamo ben dire, eppure molto meno paurosa di “Familia”. Qui non c’è redenzione né speranza in un futuro terribile e già scritto. Il film è tratto dal libro autobiografico di Luigi Celeste, che però si intitola “Non sarà sempre così”. Un raggio di luce nelle tenebre di una giovane vita precipitata nella dannazione. Estinta la pena di dodici anni di prigione, Luigi ha effettivamente dimostrato come sia possibile ricominciare: oggi è consulente informatico a Strasburgo e in carcere ha studiato e scritto la sua storia.

Nel film però questo non lo vedremo e la narrazione resta immersa nell’angoscia della lunga cronaca dell’orrore, tutto quello che è accaduto sin dall’infanzia al giovane, facendogli lucidamente decidere di diventare un mostro pubblico. L’etichetta infamante che sarebbe spettata al padre nell’unico epilogo alternativo, quello di altre morti innocenti, lo prende su di sé Luigi, avverando la biblica profezia delle colpe dei genitori ricadute sui figli. Se non conoscessimo quel “prima”, leggendo del delitto sui giornali Luigi si confonderebbe nella galleria spaventosa di crimini aberranti come quello del diciassettenne che ha sterminato i familiari o della giovane donna che ha cinicamente soppresso i figli appena nati seppellendoli nel suo giardino. 
Anche Luigi è un figlio che ammazza il padre, e ovviamente conoscendo la storia noi comprendiamo l’istinto che arma la sua mano, questo assassinio altrimenti degenere e contro natura. Ci sono però diversi livelli di responsabilità, coinvolgimento, dolore e sopravvivenza. Lo sguardo su questa famiglia dominata da terrore e sofferenza non è mai giudicante, e questa visione in un certo senso educa lo spettatore – o se si preferisce, lo invita a esercitare quell’empatia dovuta all’intera umanità. Nessuno nasce mostro, dice Luigi. Non il giovane che suo malgrado ama l’uomo che lo ha generato e di cui ha desiderato l’affetto perduto da bambino. Eppure nemmeno il padre, vittima di se stesso e incapace di cambiare. Bravissimi entrambi gli attori, Francesco Gheghi (vincitore nella sezione Orizzonti a Venezia) e Francesco Di Leva, capaci di trasmettere il senso delle tremende prigioni interiori dei loro personaggi. Luigi attratto dai deliri ideologici del gruppo neofascista a cui si avvicina, rabbioso e irascibile, dilaniato dal pensiero di aver ereditato i geni paterni e poter trasformarsi a sua volta in un compagno che offende, violenta e massacra. Franco che non controlla le sue ossessioni e gli impulsi di ira, forse cresciuto dentro simili rapporti di sopraffazione, che non ha gli strumenti per cambiare e nello spannung della tragedia chiede che a spezzare quelle catene sia il figlio, nell’unico modo possibile. Lo sfida e al contempo domanda una liberatoria pietà che non ha il coraggio di concedersi da solo.

E' una storia di uomini alle prese con le tare atavicamente imposte al proprio sesso dall’onnipotente cultura patriarcale. Le donne del film sono due, diversissime ma accomunate da quella tendenza ad accogliere e curare che spesso è causa della loro fine. La fidanzata di Luigi, che lo perdona per averla abbandonata preferendo la fedeltà al gruppo squadrista, rischia in nome dell’amore ma ha avuto soltanto più fortuna. La madre è remissiva e fiduciosa nel riprendere in casa un marito che le ha rotto i denti, ma lei non rischia, lei sa già come andrà a finire. 
Questa domanda aleggia per tutta la durata del film e se l’è fatta anche l’attrice Barbara Ronchi. Perché gli permette di tornare, perché accetta di vivere nell’incubo di una parola o un gesto che scatenino l’imprevedibile violenza fino all’aggressione mortale? I tribunali social direbbero che se l’è cercata – come sulla ragazza innamorata del neofascista già finito in carcere scatenerebbero l’odio incel - che è una ma questo film fa il piccolo miracolo di dissipare ogni giudizio o tentazione di colpa. Per nessuno. I figli dicono che “è fatta così”, e chi soccombe alla violenza e non denuncia, non è migliore del suo aguzzino. Osservazione logica e razionalmente perfetta. Ma poi Luigi sbatte contro i muri di gomma di leggi e procedure che antepongono la burocrazia all’incolumità delle donne. Quelle che denunciano non hanno nessuna tutela, vengono separate dai figli sistemati in comunità protette, o continuano a restare in balia del violento, suscitandogli sentimenti di vendetta. Tante, lo sappiamo dalla cronaca, sono morte lasciando i loro nomi nelle carte da bollo inutili e mute, nuovi numeri del bollettino inarrestabile. La storia dei Celeste certifica la totale solitudine di una donna che apprende una lucida certezza: nessuno l’aiuterà. Qui non c’è ancora domani per rimediare: chi si lancia nel vuoto non cade su una rete da trapezisti.

“Familia” è un film duro, dove il male entra sottopelle, raggela, paralizza chi lo guarda. Si chiama violenza assistita, quella dei bambini che sentono la madre urlare e il rumore pesante delle botte tra le mura di casa, nido di affetti e protezione anch'esso violato. Qualcuno riemerge poi nel silenzio e vedrà il sangue addosso a un corpo amato che non si muove più. 
La paura è negli occhi smarriti, le tracce delle lacrime sui visi, le urla che scoppiano e le voci che tremano. Sullo schermo anche noi siamo lì, insieme ai due fratellini che si fanno coraggio aspettando il silenzio, momento in cui potranno uscire dalla loro stanza e vedere cosa è successo. Quando sarà finita, anche se non sanno cosa ci sarà e con quali macerie. Restiamo a guardare la porta chiusa che nel film, nella sospensione della musica onirica di Valerio Vigliar, funge da blocco automatico, come nei sogni che si interrompono un attimo prima di produrre un trauma. 
Dal cinema alla vita vera, Luigi Celeste spiega di credere ancora nella famiglia e il suo sacrificio è la prova plastica di questo valore. Come madre ammetto di aver elaborato un finale borderline, se fosse accaduto a me. Mi sarei accusata del delitto per non mandare in carcere un figlio ventenne – e sarebbe stata l’estrema svalutazione della mia vita distrutta da paura e violenza. Luigi però non lo avrebbe permesso perché ha ucciso proprio per salvare quella vita. Lo sguardo pieno di gratitudine della mamma e la dignità della sua consegna gli hanno infine permesso di realizzare quella coriacea speranza. Non è stato facile ma oggi è vero. Che non sarà sempre così, se restiamo umani e amiamo incondizionatamente, senza pensare alle conseguenze.

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