Notti Brave Tour
Vi racconto il tour di Carl Brave a Reggio Calabria - recensione pubblicata oggi sul Quotidiano del Sud
REGGIO CALABRIA – Parola d’ordine fare caciara, sopra e sotto il palco. E subito accoglie la proposta l’esercito dell’ardimentoso Carl Brave - al secolo Carlo Luigi Coraggio, quindi nomen omen – radunato nella corte del Castello Aragonese di Reggio per l’unica tappa calabrese del tour del rapper romano. Il Jovanotti d’annata diceva “1,2,3…casino”, ma quella di Brave è forse una citazione involontaria di cotanto maestro degli albori dell’italico hip hop.
Fatto sta che ora è il momento di questo altissimo ragazzone (‘n ‘arbero, si direbbe nella sua Roma) e il concerto reggino non fa eccezione richiamando, per l’evento curato da Ruggero Pegna con Fatti di musica, un pubblico di teenager o anagraficamente poco oltre, anche da fuori provincia. La piazza si trasforma in una discoteca all’aperto tra canti, saltelli e lucine ondeggianti. Divertirsi come se non ci fosse un domani, fare i matti, ridere e anche di se stessi. Ma Brave, ex giocatore di basket, è il rapper politicamente corretto: eccesso massimo qualche canna, le megasbronze e gli amoretti veloci che fino a trent’anni va bene, è quello delle trappate di duro dal cuore tenero e venate di fatalismo. Unica trasgressione in testi senza scandalo o opportunamente autocensurati a botte di bip è quando sgami la bestemmia sfuggita in “Pianto Noisy”, che però ti sembra uno dei messaggi subliminali a sfondo sessuale braccati nei cartoni disneyani dai nerd complottisti. Il pubblico millennial di Reggio questa pausa di follia se la prende tutta intera – in fondo scassarsi così si può, e intanto cresci, “occhi rossi e due dita in gola”. Chi lo sa se, come raccontano le leggende metropolitane, Carletto aveva bevuto anche prima di questo live. Certo qualche stecca l’ha presa di brutto, ma non è importato a nessuno, men che meno a un rapper indie - come dire libertà assoluta, tutto e il suo contrario. Più che giustificato poi, quando nel cantatissimo “Fotografia” avrebbe dovuto “fare” anche la voce di Francesca Michielin (era nel feat. insieme a Fabri Fibra per la hit che ha portato Brave alla popolarità) e non era cosa sua. Nella scaletta del tour c’è quasi tutta la produzione partorita a gran velocità in un anno, tra singoli, partecipazioni e i due album “Notti Brave” e “Notti Brave After”. I musicisti della sua band sono pure loro giovani e coraggiosi, un gruppo orchestrale inconsueto: Simone Ciarocchi alla batteria, i fratelli Lucio e Mattia Castagna (percussionista e bassista), i chitarristi Lorenzo Amoruso e Massimiliano Turi, Valerio D’Ambrosio (tastiere), Adalberto Baldini (sax) e i trombettisti Edoardo Impedovo e Gabriele Tamiri.
Il gemellaggio Roma-Reggio passa per i ritornelli intonati dai ragazzi con perfetta cadenza capitolina. “Ancora che stamo pell’aria”, vagabondaggi urbani tra asfalto, cicchetti, sogni infranti e assenze. Ogni titolo è salutato da un delirio di urla, attesi allo stesso modo e ognuno imparato a memoria, altro che poesie scolastiche. Si balla, e non solo negli spazi liberi lontano dalla zona rossa del sottopalco. Il concerto s’interrompe due volte per altrettanti malori di ragazze accaldate: Brave fa arrivare i rifornimenti d’acqua, poi riprende nella lunga cavalcata di brani che si susseguono in una dissolvenza volutamente osmotica. Uno finisce e l’altro inizia, da “Polaroid”, a “Camel blu”, “Alla tua”, “Sempre in due”, “Spunte blu”, “Chapeau”, “Noccioline”, “Mezzo cocktail”. Si parla d’amore, ma anche di social, di tempo sfocato e desideri disillusi, di scuola. Per “Professoré”, Carl chiama sul palco una giovane docente (“ma guarda che qua devi fa’ la pazza, io te lo dico”), destinataria delle imprecazioni del brano: “Mi sono fatto il c… e m’hai messo tre, vorrei vedere te”. Le notti Brave sono specchio di una generazione che sembra vuoto pneumatico invece ha soltanto indossato un’armatura per proteggersi. Realisti, concreti, concentrati sul presente perché solo quello c’è a disposizione, “tanto finisce tutto prima o poi”. La sola concessione a sentimentali nostalgie, a quel passato che a questa età non fa male, è la compulsione a selfie e fotografie: nelle canzoni di Carl ce ne sono molte e lì “veniamo fuori bene”, meglio della vita vera probabilmente. Quella che passa e fa diventare grandi tra una multa, un tamponamento, un clic su foto sexy, ma senza pensare troppo al resto, perché “ci avrei scommesso su noi due/una vita intera sempre in due/invece ognuno per le sue”.
Il finale è dedicato ai tormentoni, tranne il citato “Fotografia” proposto nella prima parte del concerto come omaggio vintage agli esordi di carriera: si chiude dunque con la versione Brave di “Vivere tutte le vite” di Elisa; “Posso” (con Max Gazzé) e “Malibu” (con Gemitaiz). I brani più “leggeri leggeri” del repertorio, un manuale dei pensieri zero. E davanti al Castello aragonese, un cielo stellato di accendini, telefonini e gadget fosforescenti, parallelo a quello irraggiungibile sopra le città dove ogni giorno proviamo a vivere.
Il gemellaggio Roma-Reggio passa per i ritornelli intonati dai ragazzi con perfetta cadenza capitolina. “Ancora che stamo pell’aria”, vagabondaggi urbani tra asfalto, cicchetti, sogni infranti e assenze. Ogni titolo è salutato da un delirio di urla, attesi allo stesso modo e ognuno imparato a memoria, altro che poesie scolastiche. Si balla, e non solo negli spazi liberi lontano dalla zona rossa del sottopalco. Il concerto s’interrompe due volte per altrettanti malori di ragazze accaldate: Brave fa arrivare i rifornimenti d’acqua, poi riprende nella lunga cavalcata di brani che si susseguono in una dissolvenza volutamente osmotica. Uno finisce e l’altro inizia, da “Polaroid”, a “Camel blu”, “Alla tua”, “Sempre in due”, “Spunte blu”, “Chapeau”, “Noccioline”, “Mezzo cocktail”. Si parla d’amore, ma anche di social, di tempo sfocato e desideri disillusi, di scuola. Per “Professoré”, Carl chiama sul palco una giovane docente (“ma guarda che qua devi fa’ la pazza, io te lo dico”), destinataria delle imprecazioni del brano: “Mi sono fatto il c… e m’hai messo tre, vorrei vedere te”. Le notti Brave sono specchio di una generazione che sembra vuoto pneumatico invece ha soltanto indossato un’armatura per proteggersi. Realisti, concreti, concentrati sul presente perché solo quello c’è a disposizione, “tanto finisce tutto prima o poi”. La sola concessione a sentimentali nostalgie, a quel passato che a questa età non fa male, è la compulsione a selfie e fotografie: nelle canzoni di Carl ce ne sono molte e lì “veniamo fuori bene”, meglio della vita vera probabilmente. Quella che passa e fa diventare grandi tra una multa, un tamponamento, un clic su foto sexy, ma senza pensare troppo al resto, perché “ci avrei scommesso su noi due/una vita intera sempre in due/invece ognuno per le sue”.
Il finale è dedicato ai tormentoni, tranne il citato “Fotografia” proposto nella prima parte del concerto come omaggio vintage agli esordi di carriera: si chiude dunque con la versione Brave di “Vivere tutte le vite” di Elisa; “Posso” (con Max Gazzé) e “Malibu” (con Gemitaiz). I brani più “leggeri leggeri” del repertorio, un manuale dei pensieri zero. E davanti al Castello aragonese, un cielo stellato di accendini, telefonini e gadget fosforescenti, parallelo a quello irraggiungibile sopra le città dove ogni giorno proviamo a vivere.
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