C'era una volta... a Hollywood

“C’era una volta a Hollywood” , come nell’incipit delle fiabe. E infatti al “suo” cinema americano Quentin Tarantino regala un emozionante happy ending, immaginando che la strage di Cielo Drive e il brutale omicidio di Sharon Tate siano stati sventati da un eroico salvataggio di due eroi deluxe, la coppia Leonardo Di Caprio-Brad Pitt. 
Nella pellicola numero 9 del regista di Knoxville le due star sono rispettivamente l’attore in crisi alcolica di mezza età Rick Dalton e il suo amico-factotum Cliff Booth, stuntman dalla testa calda che dopo un’accusa di uxoricidio è stato messo al bando da Hollywood. Giunto all’acme di una carriera cinematografica brillante e decisamente iconica, Rick si ricicla nelle serie tv, in cui è relegato al ruolo di antagonista - perciò è depresso e beve, dimenticando purtroppo non i suoi guai ma le battute dei copioni. Nell’iperbolica residenza di Bel Air (arredata con irresistibili memorabilia cinematografici, da locandine a gadget, cimeli di set e foto d’epoca che rimandano a cultissimi film anni ‘50-‘60) Rick guadagna un vicino di casa d’eccezione, l’osannato regista europeo Roman Polanski, il quale si trasferisce nell’esclusivo quartiere losangelino dei divi insieme alla bellissima moglie Tate (Margot Robbie), giovane attrice in ascesa. 
Su questa trama si innestano i più tradizionali intrecci di citazioni e camei tarantiniani: in montaggi che ricordano la ricostruzione digitale di Spielberg per “Forrest Gump”, Di Caprio si materializza in frammenti di film e sceneggiati di genere a prova di superesperti della materia (“Three in the Attic” di Richard Wilson; “The wrecking crew”, spy commedia con Dean Martin; “Piano piano, non t’agitare”, che vide compagne di cast Claudia Cardinale e Sharon Tate) - ma pure al posto di Steve McQueen nel mitico “La grande fuga”, ruolo che l’istrionico Dalton si sarebbe fatto soffiare appunto dallo stellare collega - mentre qui e là dettagli scenici e deliziosi costumi vintage fanno rivivere alla maniera pop di Quentin gli anni d’oro di Hollywood. Che fu, in ogni sua sfumatura, il primo ed eterno amore di Tarantino, svezzato a videocassette di serie B come commesso di un negozio di blockbuster e da sempre autore di concrete dimostrazioni sentimentali con dediche al cinema western, l’action, le copertine di Playboy e i “dirty movies”, i film di arti marziali (qui con il divertentissimo siparietto con un tracotante Bruce Lee il cui urlo non terrorizza per nulla l’occidentale Cliff-Brad Pitt durante un duello che piuttosto ricorda le spavalde scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill). Tutto molto americano, e anche stavolta le caratterizzazioni iperboliche abbondano, ad iniziare dai due protagonisti, eccessivi quanto serve nei panni dell’attore alcolizzato e il belloccio attaccabrighe dal passato misterioso. A giocare sul tema sono poi le numerose guest star: Al Pacino e Kurt Russell in primis, e poi l’indimenticato Luke Perry, che, quasi come Dalton nel film, soffriva della forzata reclusione nella pur popolarissima serie televisiva teen “Riverdale” e con questa partecipazione ha realizzato l’ultimo sogno della carriera tornando al cinema pochi mesi prima della morte.
Il leitmotiv della storia è quello di una crepuscolare nostalgia. L’era felice di Hollywood si spegne su un viale del tramonto che accomuna Rick al suo mondo che sta scomparendo. In un impeto d’orgoglio e campanilistica appartenenza, nonostante dolori e fallimenti Dalton continua a sentirsi un figlio di Hollywood e disprezzare persino l’industria che lo riporterà al successo, quel cinema italiano degli spaghetti western di cui odia, per dirne una, il caotico metodo di recitazione con dialoghi sordi in lingue diverse successivamente tradotte. Nuovamente popolare, l’attore tornerà a casa un po’ più sereno e persino conquistando l’amore (una giovane e avvenente moglie made in Italy), ma consapevole che qualcosa è finito per sempre. 
Il Tarantino di “C’era una volta a Hollywood” è più malinconico del solito. Come il suo Rick Dalton, che ormai felicemente sposato pensa a uno stile di vita meno superficiale e lussuoso, lo stesso regista dichiara di esser cambiato dopo il matrimonio. Ha messo la testa a posto, potremmo dire – e anche per questo, forse, ha girato questo film mantenendo a riposo la sanguinaria Sposa di cui si attende una nuova apparizione per il terzo capitolo di Kill Bill (e, per inciso, significherà qualcosa che la terribile eroina sia non l’attuale consorte di Quentin ma una ex con i fiocchi, Uma Thurman…). Certamente i fan non si deludono a cuor leggero, e nella rutilante scena dell’eccidio fallito dei seguaci di Manson, ecco i vecchi, cari bagni di sangue splatter, ecco lo humour nerissimo di Leo e Brad alle prese con lo sterminio (per legittima difesa) degli odiati hippies giunti a terrorizzare e uccidere nel nome del Diavolo. 
E’ un bellissimo atto d’amore verso quei lucenti anni di celluloide pensare che il 9 agosto 1969 la futura mamma Sharon Tate non sia mai stata neanche avvicinata dal folle commando del guru Manson. L’attrice, che nel film vediamo nascondersi eccitata come una bambina nella sala in cui proiettano i suoi film, è lo specchio al rovescio della disillusa disperazione di Dalton: quanto Rick è frustrato, nervoso e umiliato dalla china del tempo a cui appartiene, tanto Sharon mantiene intatto il virginale entusiasmo di far parte della dorata famiglia di Hollywood, studia, vuole migliorare, vuole piacere al pubblico. E in un’operazione di “meta-metacinema”, possiamo immaginare che se davvero fosse andata come accade in questo film, forse nella vita del maestro Polanski sarebbe stata tutta un’altra storia.

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