Chiara Ferragni - Unposted

Questa mia recensione al docufilm "Chiara Ferragni Unposted" è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud






Nelle ultime settimane Chiara Ferragni sta versando ettolitri di lacrime. Di gioia - precisiamo, alla faccia degli haters. Il documentario dedicato alla sua vita e diretto da Elisa Amoruso, “Chiara Ferragni – Unposted”, l’aveva già commossa alla vigilia della presentazione alla Mostra del cinema di Venezia e poi al Lido, nella sua serata che ha oscurato le star nello stesso modo in cui adesso, approdato nelle sale italiane, ha raggiunto la vetta dei botteghini lasciando dietro persino la cultissima seconda parte della saga horror di “It”. Soltanto tre giorni di programmazione con folle oceaniche a Milano, presidio importante dell’impero Ferragni settore brand di abbigliamento (lì è sorto il primo store con il celebre occhio stilizzato, icona che però, ammette Chiara, “poi non si è evoluta insieme a me” e infatti chi se lo ricorda più, seppellito dalle novelle social stories con Fedez e il piccolo Leo). E soprattutto con un incasso record di 513.543 euro nella prima giornata, cifra mai raggiunta in un day-one da un’opera cinematografica italiana nel 2019.
Previa avida visione del film, i fans la ricoprono di cuori via direct ringraziandola qual guru di galvanizzante autostima. Mentre ovviamente i recensori, prima e dopo Venezia, arricciano il nasino, non diversamente da come avvenne quando i professori di marketing di Harvard avevano scelto il progetto “The Blonde Salad” come caso imprenditoriale di studio, idea giudicata blasfema perché accostava le parole “bionda” e “Harvard”. Un’etichetta pregiudizievole racconta di questa sciocca Barbie ridanciana che non si capisce bene quale lavoro faccia, oltre a postare foto su Instagram e indossare abiti costosi e spesso assurdi – se non fosse che fattura milioni in costante crescita. Sei anni fa era semplicemente una bella ragazza di Cremona universitaria alla Bocconi, e aveva inventato un blog dal nome inconsueto dove postava a raffica immagini di outfit ma anche viaggi, aperitivi glamour, trucchi e parrucchi vari. Padre dentista e madre (la scrittrice Marina Di Guardo) ex direttrice di showroom, che l'aveva cresciuta a pane e moda oltre che iniziarla alla passione per la fotocamera. Quando iniziano ad arrivare gli inviti alle sfilate, lei è sempre la più giovane, una perfetta sconosciuta con il solo biglietto da visita del sito Blonde Salad, emarginata con disgusto dagli addetti ai lavori. Anche nel docufilm Chiara piange parecchio ricordando quegli esordi, non soltanto suoi ma del blogging come fenomeno. Con lei è un continuo mutamento: non più blogger ma Ceo, non più puro merchandising ma giveaway di "must have" dei desideri, non più trendsetter di marchi e stili ma onnicomprensiva influencer. Lei stessa brand e prodotto vivente. Mai come qui, la crisalide è sbocciata in farfalla, e in tutti i sensi. Da fanciulla caduta dal cielo e ipersensibile alle critiche, a giovane donna di successo e potere (termine assolutamente non inappropriato). 
Ma pure – diciamolo – da adolescente spilungona e bruttarella, come testimoniano i filmini vintage di famiglia che non cela e anzi mostra con orgoglio nel biopic, a splendida donna da copertina. Chiara, del resto, alle sue imperfezioni tiene molto: al netto del make up e dell’inganno fotografico istituzionalizzato nel regno dell’instagrammabile, la bionda cremonese è tutta nature. Sui suoi piedi non da Cenerentola e il decolleté evanescente gli odiatori sprecano ogni giorno le loro energie da leoni da tastiera. Ma lei, granitica paladina anti bodyshaming, risponde a tono (“Le zinne dove le *ai* lasciate?” “Nell’armadio insieme alla h del tuo commento”), e non soltanto per sé. Sempre pronta a difendere le sorelle bersagliate di insulti perché dotate di corpi reali e non disegnati al Photoshop e le amiche curvy ritratte in morbidi bikini insieme a lei tra Ibiza e Formentera, Chiara è giustamente adorata dai suoi 17 milioni di follower, alcuni dei quali, nel documentario, fanno da testimoni della community, accanto insieme a stilisti e personaggi del Gotha della moda. Solo donne e gay, va detto. Che in questo film si celebri il Girl Power non è una scoperta. L’invito genericamente unisex a vivere con passione, avere fiducia nei sogni e realizzarli è in particolare declinato al femminile, lungo un fil rouge che unisce la svampita Paris Hilton (fu la sua autobiografia, letta e riletta da ragazzina come una Bibbia, a far nascere in Chiara la vocazione da imprenditrice digitale) e la sanguigna Diane Von Fustenberg. 
Le donne possono tutto, da sole. Non serve avere un uomo alle spalle, precisa Ferragni, e il riferimento non puramente casuale ha il nome di Riccardo Pozzoli, ex fidanzato e inventore della Blonde Salad. Nel docufilm si scopre che ha tentato di raggirare Chiara vendendo quote della loro società negli stessi giorni in cui l’influencer stava per partorire al termine di una gravidanza rischiosa. Un infamone, insomma, ma asfaltato su tutta la linea perché Fedez e baby Leo hanno spinto alle stelle la popolarità di Chiara Ferragni consacrandone la metamorfosi da pioniera del blog a Marina Abramovic dei social media, una real artista che mette in scena la propria vita senza filtri seguendo il Verbo della Condivisione. E’ il trionfo dell’apparire sull’essere, sintetizzato in un’insopportabile parola, i Ferragnez. Ma la risposta di Chiara ai suoi detrattori, pronunciata con i cerulei occhi liquidi, è decisa: “Se sarò sempre capace di provare le emozioni che provo ora, avrò vinto comunque”. 


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