Aspromonte terra degli ultimi
Questa mia recensione al film "Aspromonte terra degli ultimi" di Mimmo Calopresti è stata pubblicata oggi sul Quotidiano del Sud
REGGIO C.- La dedica alla gente di Calabria arriva prima del titolo. Se l’erano promessi subito Mimmo Calopresti e Fulvio Lucisano, rispettivamente regista e produttore di “Aspromonte terra degli ultimi”, in uscita oggi, 21 novembre, nelle sale e presentato in anteprima (dopo il passaggio al festival di Taormina e le prime proiezioni stampa a Roma e Milano) al cinema Lumiére di Reggio. Calopresti è a casa sua, stringe mani, si concede ad abbracci e rimpatriate lampo con amici e concittadini. Insieme a lui gran parte del cast, il produttore e lo scoppiettante Marcello Fonte, mattatore naturale del pre-serata.
Nel foyer del cinema l’attore cede la scena ai colleghi più giovani, che nel film sono la meravigliosa classe scolastica di Africo, capeggiati dal reggino Francesco Grillo (Andrea, figlio del contadino Peppe Morabito, interpretato da Francesco Colella). Tutti esordienti puri, come pure la bravissima Annalisa Giannotta, glamour per la premiére ma sullo schermo fiera donna del profondo Sud. Grandi assenti Valeria Bruni Tedeschi, dolce maestrina settentrionale (personaggio deamicisiano che si ispira invece al riformatore e meridionalista Umberto Zanotti Bianco), Sergio Rubini, il cattivissimo boss locale, ed Elisabetta Gregoraci, guest star in un piccolo ruolo dove anche senza trucco e abiti sexy emerge la sua bellezza.
Realtà e finzione sul set avevano contorni confusi. Fonte, il Poeta («lo hanno chiamato così, ma è una specie di scemo del villaggio che ama i libri e la cultura»), anche dopo il ciak finale continua la sua opera di educatore sui generis dei ragazzini: «Siete ancora stanchi? Lo sapete, o a scuola o a zappare». Perché nei territori aspromontani (soprattutto il borgo fantasma di Ferruzzano, falcidiato dallo spopolamento e location principale delle riprese) si è lavorato davvero, sudando e sporcandosi. Scherza l'attore Carlo Gallo: «Mi pare strano essere vestito bene stasera… un po’ mi manca tutto quel fango». L’inarrestabile Marcello gli fa eco: «Alla fine nessuno voleva più mettere le scarpe! Adesso vogliamo fondare un movimento, si chiamerà Piedi Nudi, cammineremo scalzi in giro per le città per riscoprire il rapporto con la terra». Difficile capire quando scherzi e quando no - Fonte ha un nomignolo per ognuno, ma se c’è da essere seri confida: «In Aspromonte siamo stati in paradiso… senza telefoni e caos, in mezzo alla natura». Il suo Poeta è omaggio a una figura dell’infanzia di Calopresti a Polistena: «Mimmo me ne ha parlato così tanto che è stato facile… e poi lo sento molto vicino a me. Da sempre come artista sono stato considerato un folle». Il film è sostenuto da Calabria Film Commission e, annunciando l’uscita nelle sale, il presidente Giuseppe Citrigno ribadisce l’impegno anche sul fronte della distribuzione. E va oltre: «Con questo progetto vorremmo iniziasse una collaborazione stabile con il gruppo Lucisano». Sancito simbolicamente dall'apparizione cammeo del produttore nell'ultima scena del film, dove è un Andrea anziano che torna nel paese natale. Un patto nel nome delle radici comuni, che fanno dire a un Calopresti visibilmente emozionato: «Siamo tutti calabresi… io, Fulvio, Marcello, i ragazzi. Ho dedicato il film a noi, a mio padre, al padre di mio padre… a chi questa terra l’ha fatta con sacrifici e fatica. Mi sono nuovamente innamorato della Calabria».
Un luogo che, per fortuna, è molto cambiato dagli anni Cinquanta che si vedono nella pellicola, sospesa tra western e commedia e tratta dal romanzo di Pietro Criaco “Via dall’Aspromonte”: la storia dell’impresa di una comunità isolata i cui abitanti, dopo ripetute e vane richieste alle istituzioni decidono di costruire da sè una strada che colleghi Africo al resto del mondo. Quella traccia di due metri risicati, appena sufficienti per far passare un’automobile, rappresenta la salvezza da un’esistenza di miseria e invisibilità. Africo è un puntino da ritrovare con la bussola sul mappamondo della maestra Giulia, esiste per obbedire e pagare le tasse. Gli insegnanti inviati per ordine di servizio scappano via, le donne muoiono di parto e i bambini, come precisa il Poeta, «studiano per passione, tanto poi lo stesso faranno i contadini». I sottotitoli di traduzione dal calabrese all'italiano assumono un senso anche metaforico: lo Stato è lontanissimo e tale vuole rimanere, l’unica legge è quella dell’arrogante don Totò, il primo ad avere paura della Strada. Perché così da Africo i figli potranno partire, forse verso la fiabesca Australia dove molti parenti emigrano senza più dare notizie ma i bambini istintivamente sanno che laggiù stanno bene e sono felici. Invece la maestra lombarda è approdata di sua volontà tra tanfo di bestie e acqua piovana, in cerca di antidoti a un malessere oscuro che tra gli aspromontani, semplici e concreti, è sconosciuto. Nel libro che sta scrivendo in uno studio en plein air con la visuale del mare, il Poeta spiega che la vera civiltà è quella degli ultimi, ancora capaci di rispettare i padri. Per il resto, a cambiare le cose saranno i giovani come Caterina, che afferma di non volere figli e quando Andrea le ricorda che non decidono le donne risponde “invece sì”. Una Strada è fatta anche per restare, come fu impedito alla popolazione di Africo, evacuata dopo l’alluvione del 1951 che distrusse il paese. Ma la storia aveva già preso un altro corso con quei bastoni alzati contro l’ingiustizia e la ribellione che vide il nostro Sud “alzare la testa”, come oggi si dice con slogan e mezzi più scenografici ma molta meno convinzione nel reagire alle nuove sudditanze. Settant’anni dopo quella strada sconfitta, a mancarci ora è il sogno, ciò che il Poeta definisce «quella cosa che ti fa essere felice e te stesso». Sognare si deve, sempre.
Realtà e finzione sul set avevano contorni confusi. Fonte, il Poeta («lo hanno chiamato così, ma è una specie di scemo del villaggio che ama i libri e la cultura»), anche dopo il ciak finale continua la sua opera di educatore sui generis dei ragazzini: «Siete ancora stanchi? Lo sapete, o a scuola o a zappare». Perché nei territori aspromontani (soprattutto il borgo fantasma di Ferruzzano, falcidiato dallo spopolamento e location principale delle riprese) si è lavorato davvero, sudando e sporcandosi. Scherza l'attore Carlo Gallo: «Mi pare strano essere vestito bene stasera… un po’ mi manca tutto quel fango». L’inarrestabile Marcello gli fa eco: «Alla fine nessuno voleva più mettere le scarpe! Adesso vogliamo fondare un movimento, si chiamerà Piedi Nudi, cammineremo scalzi in giro per le città per riscoprire il rapporto con la terra». Difficile capire quando scherzi e quando no - Fonte ha un nomignolo per ognuno, ma se c’è da essere seri confida: «In Aspromonte siamo stati in paradiso… senza telefoni e caos, in mezzo alla natura». Il suo Poeta è omaggio a una figura dell’infanzia di Calopresti a Polistena: «Mimmo me ne ha parlato così tanto che è stato facile… e poi lo sento molto vicino a me. Da sempre come artista sono stato considerato un folle». Il film è sostenuto da Calabria Film Commission e, annunciando l’uscita nelle sale, il presidente Giuseppe Citrigno ribadisce l’impegno anche sul fronte della distribuzione. E va oltre: «Con questo progetto vorremmo iniziasse una collaborazione stabile con il gruppo Lucisano». Sancito simbolicamente dall'apparizione cammeo del produttore nell'ultima scena del film, dove è un Andrea anziano che torna nel paese natale. Un patto nel nome delle radici comuni, che fanno dire a un Calopresti visibilmente emozionato: «Siamo tutti calabresi… io, Fulvio, Marcello, i ragazzi. Ho dedicato il film a noi, a mio padre, al padre di mio padre… a chi questa terra l’ha fatta con sacrifici e fatica. Mi sono nuovamente innamorato della Calabria».
Un luogo che, per fortuna, è molto cambiato dagli anni Cinquanta che si vedono nella pellicola, sospesa tra western e commedia e tratta dal romanzo di Pietro Criaco “Via dall’Aspromonte”: la storia dell’impresa di una comunità isolata i cui abitanti, dopo ripetute e vane richieste alle istituzioni decidono di costruire da sè una strada che colleghi Africo al resto del mondo. Quella traccia di due metri risicati, appena sufficienti per far passare un’automobile, rappresenta la salvezza da un’esistenza di miseria e invisibilità. Africo è un puntino da ritrovare con la bussola sul mappamondo della maestra Giulia, esiste per obbedire e pagare le tasse. Gli insegnanti inviati per ordine di servizio scappano via, le donne muoiono di parto e i bambini, come precisa il Poeta, «studiano per passione, tanto poi lo stesso faranno i contadini». I sottotitoli di traduzione dal calabrese all'italiano assumono un senso anche metaforico: lo Stato è lontanissimo e tale vuole rimanere, l’unica legge è quella dell’arrogante don Totò, il primo ad avere paura della Strada. Perché così da Africo i figli potranno partire, forse verso la fiabesca Australia dove molti parenti emigrano senza più dare notizie ma i bambini istintivamente sanno che laggiù stanno bene e sono felici. Invece la maestra lombarda è approdata di sua volontà tra tanfo di bestie e acqua piovana, in cerca di antidoti a un malessere oscuro che tra gli aspromontani, semplici e concreti, è sconosciuto. Nel libro che sta scrivendo in uno studio en plein air con la visuale del mare, il Poeta spiega che la vera civiltà è quella degli ultimi, ancora capaci di rispettare i padri. Per il resto, a cambiare le cose saranno i giovani come Caterina, che afferma di non volere figli e quando Andrea le ricorda che non decidono le donne risponde “invece sì”. Una Strada è fatta anche per restare, come fu impedito alla popolazione di Africo, evacuata dopo l’alluvione del 1951 che distrusse il paese. Ma la storia aveva già preso un altro corso con quei bastoni alzati contro l’ingiustizia e la ribellione che vide il nostro Sud “alzare la testa”, come oggi si dice con slogan e mezzi più scenografici ma molta meno convinzione nel reagire alle nuove sudditanze. Settant’anni dopo quella strada sconfitta, a mancarci ora è il sogno, ciò che il Poeta definisce «quella cosa che ti fa essere felice e te stesso». Sognare si deve, sempre.
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