Il nuovo metodo danese per educare i bambini alla felicità

Ogni insegnante conosce (o dovrebbe conoscere) la celebre citazione di Einstein secondo cui tutti nasciamo geni ma “se giudichiamo un pesce in base alla sua abilità di arrampicarsi su un albero, quello passerà la vita a sentirsi un idiota”. Famiglia e scuola sono i principali responsabili del senso di fallimento che segna in modo doloroso e spietato l’esistenza di tanti ex bambini educati a considerarsi incapaci perché gettati per anno in un ambiente competitivo e spinto all’unico scopo di primeggiare. 
Ma un altro mondo è possibile, anche a scuola, per Jessica Joelle Alexander che dopo il best seller “Il metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni” fa entrare nelle classi il suo manuale di pedagogia scandinava con un secondo libro mirato, “Il nuovo metodo danese per educare i bambini alla felicità a scuola e in famiglia” (Newton Compton editore) . Come ricorda nella prefazione a chi non avesse letto il primo volume, la statunitense Alexander, psicologa e giornalista, era una convinta “no babies” prima di innamorarsi di un danese, divenuto suo marito, e scoprire che nella patria del consorte i figli non sono quelle viziatissime, capricciose e ingestibili palle al piede che conosciamo noi mamme italiane (nel Belpaese la scrittrice lavora e soggiorna spesso) e neanche i depressi e complessati ragazzini problematici che gettano nella disperazione i genitori americani.
No, a Copenaghen e dintorni i bambinetti sono sorridenti, educati, rispettosi. Roba da far venire subito voglia di procreare pure alla più coriacea portatrice sana di mancato istinto materno. Tanto è accaduto a Jessica Alexander che da donna per la quale i bambini erano quasi alieni oggi di figli ne ha due. Soprattutto, lei si sente una brava madre - impressione che (qui mi permetto di affermarlo parlando senza presunzione a nome di TUTTE le mamme che ho mai conosciuto in vita mia) da queste parti è, se non vogliamo dire unica, molto, molto rara.
Qual è, dunque, il suo segreto per non naufragare nei nostri noti sensi di colpa e correnti alternate di amore e odio verso gli adorati pargoli da 0 a anta anni? Visitando le scuole danesi, l’autrice ha appreso che i ragazzi possono essere addestrati ad essere felici – e questo, va da sé, si trasmette beneficamente a chi li ha messi al mondo. Un obiettivo che in effetti non è tra quelli del nostro sistema scolastico. Dove, giustamente, ognuno mette i paletti attorno alla propria professione: i docenti vogliono soltanto insegnare, i collaboratori occuparsi della pulizia dei locali, il personale amministrativo delle carte, i dirigenti dell’organizzazione. I vari Ptof promettono traguardi di formazione, maturazione, instradamento al lavoro. Preparare la strada alla felicità (o almeno offrire strumenti contro l’infelicità, che già sarebbe tantissimo) non rientra nelle competenze di nessuno.
E verrebbe da dire che non abbiamo (genitori e prof) tutti i torti. Questi danesi placidi e sicuri di sé non avranno fatto il passo più lungo della gamba? Insegnare la Felicità pare un proposito un pochino ambizioso. Però è anche vero che nelle scuole italiane, come in quelle americane, non esistono le Settimane del sesso (in cui agli adolescenti si forniscono non solo opuscoli informativi sulla contraccezione e preservativi ma anche dildo su cui far pratica!), né le help line anonime dedicate a dubbi sul corpo e la sessualità o i video divulgativi su argomenti non solo prettamente scientifici ma anche privatissimi (tra cui il tabù dei tabù, la masturbazione). E nelle nostre scuole non si organizzano uscite didattiche nei cimiteri né si prevedono lavori collettivi di scrittura o disegno per supportare i bambini che hanno perso una persona cara e aiutarli a superare la sofferenza del lutto. Insomma, qualche tentativo fuori dal curriculum studiorum e i programmi ministeriali loro lo fanno, eh.
Del resto, già prima di approdare sui banchi, i piccoli danesi conoscono il sesso e la morte: può capitare di ricevere in regalo per Natale un libro in cui si racconta l’amore tra un uomo e una donna con disegni e didascalie che pur mantenendo un registro fiabesco sono abbastanza espliciti, se si nominano il pene e la vagina e s’illustrano spermatozoi danzanti nella stanza da letto. Niente pisellino e patatina, nemmeno per i più giovani: ogni cosa si chiama con il suo nome nella massima naturalezza. Lo stesso accade per eventi traumatici come la morte o il divorzio dei genitori, perché la traccia è quella di non reprimere le emozioni ma lasciarle fluire, anche se fanno male.
Poi c’è il grande nemico di insegnanti, educatori e famiglie: il bullismo. Prima e soprattutto dopo i social, i danesi hanno capito che non questo è un evento da trattare con la condiscendenza dell’adulto che dice al bambino “fregatene e lasciali perdere”. In Danimarca il contrasto è deciso e inizia con la prevenzione attraverso sociogrammi, questionari e tanto dialogo. Pleonastico aggiungere (ma lo farò ugualmente) che ogni istituto ha in organico consulenti, psicologi e docenti specializzati il cui ruolo è sensibilizzare gli allievi sul tema, individuare situazioni a rischio e intervenire in sinergia con i genitori. Quando poi il meccanismo bullo-vittima si è già innescato, la prospettiva per affrontarlo è capovolta. Nessun bambino è cattivo, l’errore risiede nelle dinamiche di gruppo e per questo gli insegnanti attribuiscono un ruolo importante agli osservatori silenziosi. Nello schema classico (dove il bullo è reso forte dal sostegno dei gregari e la vittima è isolata) sono figure che non contano nulla e qui l’intuizione è di trasformarli in piccoli cavalieri a tutela di chi è umiliato e aggredito. Perché è nel dna dei giovani essere contro le ingiustizie. Poi purtroppo crescono, e questa è un’altra storia.
Il prodigioso metodo danese è racchiuso nell’acronimo Teach, ovvero Trust (fiducia), Empathy (empatia), Authenticy (sincerità), Courage (coraggio) e Hygge (benessere collettivo). Una ricetta fatta di idee non trascendentali ma al contrario molto semplici da far comprendere e applicare in una classe, e senza limiti di età. Filo conduttore è il valore del singolo con le sue diversità e ricchezza individuale, la meta finale costruire una forte autostima e bloccare ogni infiltrazione di vergogna e insicurezza.
Il concetto più complesso dell’acronimo è forse l’Hygge, che nella lingua danese indica un luogo in cui si sta bene insieme con i propri compagni in un clima sereno e accogliente, ed è collegato a un’altra parola astrusa, il fallesskab, che vuol dire unione. Cose talmente importanti che in Danimarca le scuole hanno un giuramento Hygge, una sorta di decalogo di regole per imparare a rispettare l’altro e passare dalla centralità dell’io alle esigenze del noi. E al posto di vagonate di compiti gli insegnanti assegnano lavori di gruppo dedicati anche al gioco libero e ore di pratica dell’Hygge in famiglia.
Non sarà tutto troppo perfetto? Non dimentichiamo che statistiche storiche hanno visto a lungo la Danimarca tra gli stati con più alto tasso di suicidi (di adulti). Al di là dei cambiamenti della società globale - che in parte attestano il superamento di questo dato - spostandoci in Italia più importante è quello secondo cui oggi ad essere maggiormente depressi e ansiosi sono i giovani. E molti suicidi sono messi in atto da ragazzini plagiati da giochi virtuali, bullizzati, oggetto di bodyshaming o impauriti dalla reazione dei genitori a un brutto voto scolastico.
Lo sappiamo, la felicità non è una garanzia e men che meno un vitalizio. Ma vale comunque la pena – genitori e prof - di provare, se servono appena l’esercizio di sincerità, coraggio e fiducia, a mantenerla viva il più possibile almeno tra i bambini, titolari di un diritto inviolabile ad essa. Che poi ci sia una forte probabilità, riuscendo nell’intento, di diventare anche adulti felici… questa è un’utopia a cui fa bene continuare a credere.

Commenti

Post popolari in questo blog

Donne dell'anima mia