Hammamet

Il primo sospetto di agiografia è facilmente fugato. Perché parlare proprio di Craxi? Quale bisogno c’era di dedicare un film al personaggio più iconico (secondo, in base ai punti di vista, forse soltanto a Giulio Andreotti) del marciume della Prima Repubblica? Perché? Ad esempio, perché Gianni Amelio presenta il suo “Hammamet” a pochi giorni dal ventennale dalla morte del leader socialista e dunque l’occasione è, senza retropensieri, propizia per rispolverare la memoria storica di un nome importante della politica repubblicana, peraltro ancora ispiratore d’infiniti dibattiti teoretici tra accuse e riabilitazioni. E già questo basterebbe per motivarne la scelta - insieme, certo, alla solida fede socialista del regista calabrese.
Ma nonostante il film sia stato da subito accompagnato da polemiche sulla presunta rappresentazione faziosa della vita di Craxi, in realtà di tutto si tratta meno che di un biopic documentario, e ancor meno di un’opera apparentemente biografia che celi l’intento di proporre sotto una luce assolutoria l’ex presidente del consiglio pluricondannato per corruzione e artefice stesso dell'infezione del sistema politico italiano rivelata da Mani Pulite e da lì in poi divenuta vergognosamente endemica e incurabile. No, Gianni Amelio non è mai partito da questa genesi, immaginando piuttosto una storia di taglio intimista e costruita su un umanesimo profondo, dove l’unica indulgenza possibile è quella dell’appartenere tutti alla stessa specie mortale, carnefici e vittime, corruttori e corrotti, peccatori e casti. Oltre, dichiaratamente, al fattore dell’età: nel film si raccontano infatti gli anni tunisini della latitanza, che segnarono la vecchiaia e il declino non solo politico ma ineluttabilmente fisico di Craxi. Il regista già da qualche anno aveva ammesso la propria inclinazione – per motivi anagrafici d’immedesimazione emozionale - a scrutare dentro questo particolare periodo della vita, che smussa gli angoli acuminati della veemenza giovanile e scopre una nuova, serena accettazione dell’animo umano, miserie e squallori compresi. Lo aveva già fatto (benissimo) in “La tenerezza”, adesso questo stream of consciousness generazionale prosegue con la cronaca introspettiva della caduta di Bettino Craxi. Una ricostruzione sfacciatamente disonesta verso la realtà storica? Sì, ma nel pieno diritto d'opinione, oltre che all'interno della zona franca dell'opera cinematografica, che può disinteressarsi dei fatti, stravolgerli, risultare scomoda e odiosa, turbare e suscitare rabbia, schivare l'impegno e la missione morale per analizzare altro. E' da sempre così, nel cinema come in letteratura.
“Hammamet”, con i suoi ritmi lenti, i dialoghi perfetti e i continui rimandi psicanalitici al passato è piuttosto un film assolutamente “ameliano”, e prima di ogni altra considerazione stilistica lo si potrebbe già dire a colpo sicuro solo per la centralità del tema della famiglia. Bettino e la moglie Anna, Bettino e l’adorante nipote che mette in scena Sigonella con soldatini da collezionista perfettamente schierati sulla sabbia dell’arenile, Bettino e Stefania, che nel film però si chiama Anita come la donna amata da Garibaldi, il condottiero mito assoluto di Craxi. Del resto, se non fosse per l’autentica reincarnazione di Pierfrancesco Favino nel corpo e la personalità di Bettino Craxi, potremmo star parlando semplicemente di un uomo, un altro simbolico Napoleone precipitato dall’altare alla polvere: il nome del protagonista, definito "il Presidente", non viene mai pronunciato e molti personaggi sono di fiction, rispondendo a una drammatizzazione dei fatti mirata qui non all’esattezza storica ma a un universale verismo sui concetti di potere e politica.
Un rischio c’è - per un film come per un libro – ed è quello di appannare la conoscenza di chi Tangentopoli l’ha vissuta, e dall’altro lato confondere le idee ai più giovani. In tal senso il film, più che scorretto, è un po’ snob - si rivolge infatti con piena cognizione di causa a quanti hanno già gli strumenti per ricordare la figura di Craxi abbandonando il resto del pubblico (che per fasce di età non è neanche poco) a una fruizione essenzialmente emotiva della pellicola - e, come si diceva, pure a una subdola manipolazione storica, involontaria o cosciente che sia. Ma volendo considerare soltanto il profilo sentimentale di materia ce n’è comunque tanta, iniziando dall’interpretazione sorprendente di Favino (al di là del lavoro eccezionale dei truccatori, nei modi, la voce, l’espressione e i movimenti l’attore non “fa” ma “è” Craxi) e poi per entrare nell’atmosfera amarcord di un’Italia che non esiste più ma ha lasciato sotto le sue ceneri i semi delle gramigne più infestanti. Ideali, avidità, grandeur, vizi, spregiudicatezza e celodurismo d’antan: sullo sfondo della lenta agonia di Craxi la televisione manda i melodrammatici film di Douglas Sirk ma pure le gambe svettanti delle ballerine di Canale 5 – poi appare Berlusconi ed è il crepuscolo, tutto sta per cambiare (per restare, come insegna il Gattopardo, esattamente come prima, se non peggio).
La fuga ad Hammamet diventa oggetto di barzellette e cabaret volgare. Craxi è il grande ladro che ha spolpato l’Italia e sbeffeggia i giudici passeggiando sulla spiaggia, la sua malattia è una furba invenzione. Icona ridicola del Belpaese: anch'io rammento da bambina il ricorrere del suo nome in battute metaforiche durante le cene di famiglia (“te ne vuoi andare pure tu ad Hammamet come Craxi?”, “… quello sta ad Hammamet a prendere il sole e a noi pensa”). Nel film le responsabilità del Presidente si vedono tutte, così come è palpabile la sgradevolezza del senso d’impunità di una politica che ha gettato la maschera con arrogante onnipotenza. E nonostante lo sforzo riparatore del regista, pochi possono farsi convincere dalla tesi craxiana del così fan tutti e della persecuzione personale che il personaggio espone nel film. “In politica devi aiutare tutti”, dice Favino-Craxi, che è un altro modo per ammettere che le mani, sue e degli altri, erano davvero sporche. Il partito socialista è degli operai ma quando si diventa ricchi non si vuole più tornare indietro e la purezza delle idee vacilla. Il Presidente disprezza cinicamente i rimorsi che poi porteranno a togliersi la vita il tesoriere del partito (Giuseppe Cederna) ma è anche lo stesso che ad Hammamet intercede per procurare un posto in ospedale alla moglie di un tunisino che non può pagare le cure. E la scontrosissima Anita, favorisce l’incontro del padre malato con l’amante e visita Fausto, il figlio del tesoriere ricoverato in clinica psichiatrica, che chiude il cerchio delle colpe paterne. Il suicidio come la cancrena sono quasi una metafora da inferno dantesco di punizioni superiori, la pena scontata se non con la giustizia terrena con quella divina.
Un garofano rosso dai petali sfogliati, un sasso scagliato a frantumare vetri - le immagini di Amelio sono traumi vivi. Al Presidente questo film non fa nessuno sconto, Craxi è un gigante franato su se stesso e se sullo schermo ci sembra migliore di quello che fu è semmai per implicito paragone con i suoi successori . Con buona pace di chi vede revisionismi ovunque, ogni restyling morale a fronte degli odierni buffoni e subumani purtroppo è impresa molto semplice. “Hammamet” è un film molto bello con un attore da Oscar. Il resto è nella storia vera, e lì va cercato e conosciuto.

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