Favolacce


Se è vero che, come scrisse Gilbert Keith Chesterton, le fiabe non insegnano ai bambini che il drago non esiste perché lo sanno già, il roseo epilogo di questa citazione (i draghi possono essere sconfitti) non è altrettanto tale nelle “Favolacce” di Damiano e Fabio D’Innocenzo. L’unico rimando fiabesco del secondo film dei registi e fratelli romani è semmai alla sfumatura nerissima delle storie dei Grimm, chiaramente nella versione originale (l'educorante disneyano è agli antipodi). Rabbia, sadismo, follia degli adulti sono raccontati come in una mitologia dark nella pellicola premiata a Berlino con l’Orso d’argento per la sceneggiatura. 
Pronta all’uscita nelle sale alla vigilia del lockdown, l’opera seconda dei gemelli D’Innocenzo è circuitata intanto in streaming e ha ottenuto nove candidature ai Nastri. Un film sui generis, originale eppure classico, bizzarro ma neorealista, giocato su troppi contrasti per non dividere chi lo considera un capolavoro da chi lo giudica, dietro la maschera dell’autorialità artificiosa, semplicemente una gran boiata.
A me “Favolacce” è piaciuto, nonostante una personale idiosincrasia verso il vernacolo romano nel cinema, che, se togliamo i grandi della commedia (da Sordi e Manfredi fino a Verdone, per intenderci), negli ultimi vent’anni io vedo come scusante pseudoartistica per non usare l’italiano e appiattire recitazione e dialoghi nella nebbia dell’onnipresente, subliminale accento capitolino, marchio della solita colonizzazione di Cinecittà purtroppo senza il contesto storico e la "luccicanza" degli anni d'oro. 
In questo film, ambientato in una periferia romana che fa il verso alla middle class americana delle villette a schiera (ma con ambizioni upper), giocoforza i personaggi parlano esclusivamente romanesco, in variegate declinazioni dove quelle più pesanti comportano pure la perdita di pezzi nei dialoghi. 
Ugualmente ho trovato bella l'idea di raccontare l’orrore della normalità  con i canoni del surreale, ciò che di solito mi attrae anche nella vita vera. La coppia D'Innocenzo ne ha il physique du role già nell'impronta genetica di gemelli, protagonisti di tanta letteratura nera e descritti come stralunati per cause biologiche. In "Favolacce" lo fanno in tanti modi, iniziando dalla scelta di una fotografia straniante e a tinte soffuse. I dettagli sono ingigantiti, ma solo quelli che possono disgustare o creare turbamento: una lenta invasione di formiche, creste di vegetazione bruciata, particolari difettosi come brufoli, nei, peli o ferite su volti e corpi altrimenti perfetti nella loro naturale bellezza. C’è poi la musica di Egisto Macchi (“Città notte”, anno 1972, l’album più innovativo del compositore toscano autore di tante colonne cinematografiche d’autore), che sottolinea il clima di angosciosa allerta della storia filmica, con quel suo stile dionisiaco e l’impiego privilegiato degli archi per ottenere sonorità grottesche e primordiali, simili a versi di bestie. Fino al recupero sui titoli di coda della canzone cinquecentesca “Passacaglia della vita”, che sigla il racconto con un funesto mantra sul destino umano di soccombere alla morte senza possibilità di salvezza. 
Ad apprenderlo traumaticamente sono i bambini, candidi bersagli di un’endemica crudeltà degli adulti. Il nucleo di ogni male rimane la famiglia, spietato contenitore di frustrazioni, odio e rancore. La voce narrante di Max Tortora legge il diario incompiuto di una ragazzina, dove è custodita la cronaca di eventi terribili in un quartiere romano di squallide casette con giardino, residenze pacchiane che imitano il lusso e la bella vita imboccati dalla televisione trash. 
Il microcosmo dei cafoni arricchiti è fatto di invidie, finte amicizie, matrimoni nati e maturati nell’incomunicabilità. Ognuno cela segreti di cui avverte in maniera oscura la tremenda potenza distruttiva quando ormai è troppo tardi per scappare e salvarsi. I legami tra padri e figli del quartiere sono catene dolorose, implodono costretti in un disperato tentativo di controllo per deflagrare infine, inesorabilmente, nella tragedia. 
La giovanissima Vilma, cresciuta a briglie sciolte e oggetto del desiderio sessuale di preadolescenti e uomini per la sua fisicità aggressiva (l’attrice esordiente Ileana D’Ambra è ingrassata venti chili e si è ossigenata i capelli stile coatta), sta diventando madre ma è ancora una bambina. I fratellini Dennis e Alessia, gli Hansel e Gretel della situazione, vivono in una timorosa venerazione del padre alienato e iroso (Elio Germano): è il loro eroe, colui che dovrebbe difenderli dai pericoli del mondo ma al contempo fa paura per certi subitanei comportamenti incomprensibili. 
Non voglio spoilerare e non aggiungerò altro in proposito, ma gli episodi di follia magistralmente inscenati da Germano mettono i brividi, sottolineati dal pianto inconsolabile con cui, un attimo dopo la furia, si sfogano il padre pentito e i bambini terrorizzati e vinti. Curiosa anche la circostanza, nel curriculum cinematografico di Elio Germano, di un precedente personaggio quasi identico negli sviluppi, quello in “La tenerezza” di Gianni Amelio, dove era un padre psicotico e compiva lo stesso terribile gesto del suo alter ego di “Favolacce”. 
I bambini, dunque, imparano presto che i draghi esistono, ma anche che dal loro fuoco mortale non esiste scampo. I bambini di questo film hanno occhi puri e colmi di tristezza, membra fragili e attraversate da una mortificata pudicizia. Non sorridono quasi mai e quando lo fanno è soltanto tra loro, per solidale disperazione. Attoniti e immobili, violentati nell’innocenza, si sottomettono inermi all’irrazionale crudeltà dei padri e alla passiva accettazione delle madri, eseguono ammaestrati ciò che viene chiesto all’interno di una umiliante recita che d’istinto sanno avrà un finale drammatico. 
La loro sorte è però dubbiosa, lo spettatore non sa se la spaventosa ferocia inflitta alle giovani vittime sia realtà o sogno. A dircelo potrebbe essere soltanto il diario di Alessia, al quale però mancano le ultime pagine, così come alla bambina è stata rubata l’infanzia. Il diario s’interrompe e il narratore, dovendo riempire i buchi della storia, riesce unicamente ad inventare il male. 
Gli adulti sono mostri dal cuore buio. I bambini sono stati sacrificati sull’altare di un’insensata, ferina malvagità che i folli artefici non sono in grado di spiegare, anch’essi vittime della loro incapacità di vivere. Padri e madri che vorrebbero amare ma non sanno farlo se non nella perversione, finendo per trascinare i figli nell’abisso di un vuoto a perdere dell’anima. Il ritornello della Passacaglia canta la morale di queste favole da incubo: “Non val medicina, non vale la china, non si può guarire, bisogna morire”.

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