Midsommar

Il momento per guardare questo film è quello giusto, “Midsommar”, ovvero solstizio d’estate, che inizierà nelle prossime ventiquattr’ore. Volevo vederlo da tempo ma mi sono decisa solo oggi, e sembra esattamente uno di quegli inquietanti presagi su cui è costruita l’opera seconda di Ari Aster. Segni d’ineluttabilità, terrificanti e angosciosi ma a cui docilmente piegarsi perché comunque non esisterebbe via di scampo.
Va detto che il titolo italiano, “Il villaggio dei dannati” è una fesseria: non soltanto cancella lo spirito animistico su cui si fondano le vicende del film, e poi richiama a sproposito una famosa pellicola cult, omonima, diretta nel 1960 da Wolf Rilla e ispirata al romanzo di fantascienza “I figli dell’invasione” di John Wyndham, che era tutt’altra storia. Dunque io continuerò a parlare di Midsommar, iniziando a dire senza mezzi termini che si tratta di un capolavoro horror nel senso più classico. Film di genere, d’accordo, con la giusta dose splatter di sangue, corpi smembrati, cieca violenza e sadismo. Eppure una firma d’autore molto originale è subito chiara, come lo era in “Hereditary”. La poetica di Ari Aster è proiettare i demoni interiori in realtà da incubo, nutrendo la tensione con ritmi lenti e riflessivi, fino all’improvviso precipitare degli eventi. 
In questo film l’elemento visivo è il principale vettore di sentimenti d’ansia e paura. Bianco e luce, che dovrebbero essere catalizzatori di energia benefica, qui conducono alla perdita della ragione. C’è uno strappo forte nel film, ed è legato a un diabolico genius loci: si passa dalle atmosfere metropolitane statunitensi, cupe e buie ma rassicuranti nella loro routine mondana, al chiarore abbacinante del paesino rurale di Harga, in Svezia (esiste davvero, mentre è invenzione l’Affekt, linguaggio meticcio runico-scandinavo con il quale nel film comunicano i membri della piccola comunità e che è già oggetto di studio tra i cinefili; invece la festa svedese del Midsommar è reale ma non si celebra ogni 90 anni come accade nella pellicola).
I giovani Dani e Christian sono una coppia in crisi, però si crogiolano statici e ignavi nel limbo di questo amore consumato: lei è soggiogata dalla dipendenza affettiva dal fidanzato, lui cerca la leggerezza e vorrebbe lasciarla ma è frenato dai casini familiari della ragazza, che culmineranno in una strage domestica nella quale Dani perde entrambi i genitori e la sorella psicotica. L’occasione per uscire dallo stallo sentimentale arriva con il viaggio proposto dall’amico svedese Pelle, che invita i due fidanzati e altri ragazzi nel suo paese d’origine, con l’idea di assistere alle tradizionali celebrazioni del solstizio estivo che lì ogni anno si svolgono. 
La vigilia della partenza è offuscata da tremendi sogni premonitori e capiamo immediatamente che la grande protagonista è lei, la fragile biondina Dani. L’attrice Florence Pugh (più nota al grande pubblico per Piccole Donne) è perfetta in ogni dettaglio, con gli occhioni atterriti e le urla agghiaccianti che l'esile fanciulla leva, altissime o lamentose, un po’ ovunque come mantra funesti. La sua è disperazione pura, che si manifesta con crisi incontrollabili, tanto acuta da trasfigurare in veggenza: esiste un fatale collegamento tra i cadaveri dei familiari ritrovati nel loro lugubre appartamento e gli euforici rituali della comunità di Harga. 
Quando gli americani giungono in Svezia è già trascorsa un’ora di film e lo svolgimento dei fatti resta rilassato e serafico. Capiamo che qualcosa non va, ancora una volta, dallo sguardo in allarme di Dani, dalle sue lacrime silenziose, le crisi respiratorie, dai versi animaleschi che le escono fuori o dalle labbra che si aprono prive di suono. E quell’effetto malsano che sembra avere sui visitatori il sole di mezzanotte, perenne e implacabile...
Sin dalle prime cerimonie, annunciate da solenni preparativi, si presenta la rigida e crudele struttura della comunità, dove il culto della natura prevede efferati sacrifici umani a cui le vittime si immolano con gioia. Fuggire, raccontare cosa sta accadendo, sarà impossibile. L’apparente letizia si è mutata raccapricciante avidità di sangue. La purezza e i colori caldi della natura rappresentano l’ambientazione ideale per cruenti altari pagani (i costumi del film, già materiale da cinefili, sono stati messi all’asta e contesi dai collezionisti). Ari Aster lo sottolinea con campi lunghissimi e riprese ampie, in lontananza o dall’alto, dove i dettagli si perdono in un brulicare di voci, gesti, danze ossessive. Fiori, bestiame, tavole imbandite di carne diventano strumenti di tortura e simboli di una religione bestiale fondata sull’autofustigazione e la necessità di blandire gli dei e ottenerne la benevolenza con crudeli martìri. A proposito di simbologie, una postilla va fatta sui tanti segni disseminati e criptati nelle scene (dipinti, apparizioni, fotogrammi subliminali) per anticipare gli eventi della storia - si chiamano easter eggs, una classica consuetudine cinematografica qui ammantata di folklore esoterico e predestinazione.
Dopo tanta sospensione, l’orrore esplode in un attimo ed è terribile, amplificato dall’euforia degli uomini e le donne di Harga, ormai rivelatisi una setta di pericolosi invasati. I nostri ragazzi, inutile dirlo, faranno quasi tutti una bruttissima fine. 
Dani avrà un percorso differente. Il villaggio maledetto per lei sarà luogo di catarsi e guarigione. La comunità diviene la famiglia che non aveva mai avuto. Una famiglia che dà e chiede tutto, senza risparmio. Dani è sacerdotessa spietata, emissaria del volere delle divinità che guideranno le sue atroci azioni. La scena finale del film, dove il sole si confonde con il fuoco, è un inno alla malvagità come atto supremo di liberazione dai sentimenti che ci rendono sopraffatti e schiavi. Eletta regina di maggio, Dani non è più una ragazza impaurita ma un’inesorabile vendicatrice. Non ansima e non urla, ma sorride.

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