The Social Dilemma


Le intenzioni erano buone, nessuno ha mai voluto far del male. «Ehi, sono certo che quei ragazzi non fossero cattivi», dice Joe Toscano, uno dei ex manager che s’interrogano su “The Social Dilemma” nel documentario Netflix di Jeff Orlowski. Dilemma perché i social sono nati per riunire le persone, facilitare la vita e migliorare l’economia, tutte cose che in larga misura hanno fatto e seguitano a fare molto bene. Ma una lapidaria citazione di Sofocle ci ricorda che “nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione” e nel docufilm testimoni dell’apocalisse digitale sono i creativi di Facebook, Instagram, Snapchat, Twitter, riuniti per lanciare un agghiacciante allarme. Veri e propri pentiti dell’algoritmo, che ammoniscono: attenzione, qui abbiamo perso il controllo. Internet è una straordinaria invenzione, una specie di immenso parco giochi dove tutto è possibile, ma il rovescio della medaglia sono depressione, suicidi, disinformazione e solitudine. Non sembra una denuncia originale - di dipendenza dai social se ne parla da anni, così come dell’inarrestabile avanzata delle fake news (sei volte in vantaggio di circolazione sulla Rete rispetto alle notizie vere). Ma questo film è un pugno nello stomaco ed esprime in modo assolutamente nuovo ed esatto il pericolo che stiamo correndo senza saperlo. Quella iniettata dai social è una dolce morte, un’anestesia rassicurante. Tanto da diventare più desiderabile della vita vera, vampirizzata dal tempo che trascorriamo on line. Un tempo che si estende all’infinito perché l’algoritmo sa che la durata della nostra attenzione vale oro, e vuole farci restare lì.
Tristan Harris, fondatore del Center for Humane Technology, ha lavorato come esperto di design in Google e adesso è diventato guru di una campagna che demolisce quello che lui aveva creato. Come Harris, gli altri genietti dei colossi Internet, da Jeff Seibert (Twitter) a Bailey Richardson (Instagram), Tim Kendall (Facebook) e Guillame Chaslot (YouTube), squarciano un velo e fanno outing in prima persona. Loro stessi drogati, intossicati dal web, invischiati nella rete, ingranaggi di un meccanismo dal quale sono scappati. Ma è troppo tardi, siamo già dentro il baratro. I social appaiono innocui perché è tutto disponibile e gratis. Dovremmo però ricordare una delle fondamentali leggi del mercato: se non paghi nessun prodotto, il prodotto sei tu. Google e gli altri investono su un’inebriante utopia di onnipotenza – la certezza che una pubblicità (e una merce) abbiano successo. Per riuscire in quest’impresa servono dati, miliardi di dati. E li raccolgono usando noi – è il “capitalismo della sorveglianza”, bellezza.
Fin qui c’è quello che sapevamo, anche se evidentemente non ci ha fatto tutta questa paura visto che abbiamo continuato a cliccare, accettare notifiche, condividere. No, il problema è enormemente più grande. Arthur Clarke osserva come “ogni alta tecnologia è indistinguibile dalla magia”. Ed è molto simile a un potere soprannaturale ciò che permette ai social e i motori di ricerca di sapere tutto di noi. Ma non basta: la Rete utilizza questa conoscenza per creare singoli cloni di ogni utente, che serviranno da modelli prima per prevedere e poi per indirizzare i nostri comportamenti. Il prodotto è l’influenza di cambiare le nostre vite, l’obiettivo è vendere e fare soldi. Le aziende di Internet oggi sono le più ricche della storia dell’umanità, ma tutto il lavoro lo facciamo noi. Siamo sicuri che vada bene anche se, oltre a non guadagnarci nulla, non decidiamo neanche chi deve arricchirsi? I cloni creati sui social ci portano dove vogliono, manipolando i nostri gusti, le amicizie, le tendenze politiche. E noi obbediamo, ma non si tratta di un’accettazione passiva. No, noi facciamo quello ci dicono di fare e ci convinciamo che la situazione ci piaccia. L’ho pensato quando mia figlia, 12 anni, mi ha parlato di “Julie and The Phantom”, l’ennesima seria sentimental-musicale per ragazzi. Alice: “Mamma, non so perché ma la canzone di questa serie la stanno rifacendo tutti su TikTok… si vede dappertutto”. Premesso che non aveva mai visto “Julie and The Phantom” e tuttora non la vede, pochi giorni dopo Alice si mette a guardare ed ascoltare pure lei la virale canzoncina. Ecco come funziona: non so perché, ma lo fanno tutti e lo faccio anch’io. Il target preferenziale è questa Generazione Z dove ci si iscrive di frodo ai social fin dalle medie, e che ha fatto schizzare il numero dei suicidi tra gli under 20. «Volevamo diffondere amore con un like – dice Harris – trovare un’automobile con un clic e partire per un viaggio. Non pensavamo che le ragazzine sarebbero andate in depressione per il fallimento di avere pochi follower su Instagram». Per qualcuno lo scenario è quasi da guerra civile – ci estingueremo seppelliti dall’ignoranza e dai complotti, che seducono molto più della verità – la verità è noiosa. Ma quello che gela in questo documentario è una terribile confessione dei “rinnegati”: nelle stanze dei bottoni di Google e Facebook non c’è nessuno che conosce davvero l’Algoritmo, una specie di mutante ormai dotato di intelligenza propria. Fantascienza? Forse no, ma possediamo già l’antidoto al mostro digitale, ed è una serie di semplici regole pratiche: niente dispositivi prima del liceo, fuori cellulari e tablet dalle camere da letto. Ignorare i suggerimenti di video e contatti, ridurre le ore di navigazione. Ma soprattutto – su questo i pentiti dei colossi social sono coralmente d’accordo – disattiviamo le notifiche. Banale come l’indizio sotto gli occhi e che nessuno vede, le notifiche. Neutralizziamo l’arma più potente del demone, quella che ci sta annullando.

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