Avere vent'anni, la violenza e la punizione delle donne libere


“Avevo vent’anni…Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”, scrive Paul Nizan nel suo diario di formazione “Aden Arabia” e a questa citazione s’ispira il titolo di “Avere vent’anni” il film di Ferdinando Di Leo, che Torino Film Festival ripropone all’interno della retrospettiva “Back to life”.
La pellicola, oggi di culto nella filmografia del controverso regista, era già stata al centro di un omaggio vintage alla Mostra del cinema di Venezia - è uno di quei titoli della lungamente vituperata famiglia dei B movies italiani, che nell'ultimo decennio la critica sta sdoganando. 
Girato nel ’78, il film nasceva da un’operazione commerciale fallita. Di Leo voleva raccontare l’emancipazione sessuale femminile degli anni della contestazione e per farlo aveva scelto due attrici da alto gradimento, le bellissime Gloria Guida e Lilli Carati, all’epoca sogno erotico degli italiani grazie alle commedie sexy che le vedevano protagoniste a getto continuo. Le intenzioni erano chiare e infatti, senza ipocrisia, nella pellicola abbondano le loro nudità o, quando parzialmente vestite, gli hot pants minimi e le magliette bagnate che lasciano poco all’immaginazione dello spettatore. “Avere vent’anni”, però, voleva essere molto più di un semplice filmetto soft-core: Di Leo mirava a scioccare. L’etichetta di autore di genere, di cineasta popolare ma di serie inferiore, gli stava stretta - cercava una scossa per fare il salto di qualità.
La trama è all’apparenza esattamente quella di una commedia scollacciata di basso livello. Lia (Guida) e Tina (Carati) sono due ragazze belle e libere, si conoscono su una spiaggia dove entrambe rispondono per le rime agli approcci volgari dei maschi che le assediano. Diventate amiche, decidono di raggiungere insieme in autostop la comune hippy gestita dal santone Nazariota (Vittorio Caprioli). Dopo aver sedotto un professore a cui estorcono soldi, si uniscono ai fricchettoni e lì si fanno notare per la loro avvenenza partecipando a varie orge, fin quando un ospite della comunità (Vincenzo Crocitti), che è un informatore della polizia in incognito, fa in modo che sia ritrovata della droga. Il Nazariota è arrestato e il gruppo si disperde, così le ragazze riprendono il loro viaggio in cerca di fortuna. Tra un passaggio e l’altro, si fermano in una trattoria isolata e sono molestate da alcuni uomini, alle cui avance reagiscono con toni altrettanto crudi. A questo punto la narrazione del film s’interrompe in modo brusco e la storia appare incongruente: vediamo Lia e Tina nuovamente allegre e sfacciate, che sgambettano nei loro short da infarto.
Tanto bastò, nel vano tentativo di rendere il film appetibile al pubblico giovanile, per annunciarlo come precursore delle storie on the road al femminile (anni dopo qualcuno lo avrebbe persino definito un “Thelma e Louise” all’italiana). Ma non era questo che accadeva nella sceneggiatura originale. Il vero finale, un’overdose di crudeltà, aveva imposto l’immediato ritiro del film dalle sale, che tornò in distribuzione nel ’79, dopo i tagli e gli adattamenti della censura (nel lavoro di forbici furono sacrificati anche i bollenti baci saffici tra le due attrici). Persino la versione vhs, fino a pochi anni fa, continuava ad essere quella tagliata – soltanto nel 2004 Di Leo riuscì a mandare nel circuito dell’home video il film integrale, rimontato e con un nuovo doppiaggio. 



Ma cosa c’era in quella scena choc? Le due donne capiscono che i bulli della trattoria non sono i soliti innocui marpioni e quando la situazione degenera scappano. Il branco le raggiunge in una pineta buia, dove le violentano e le uccidono brutalmente. Tina, che li aveva derisi chiamandoli impotenti, per punizione è impalata nuda con un bastone conficcato nella vagina, come un barbaro trofeo sessuale.
Impensabile che un film del genere uscisse indenne dalla censura. Per Di Leo fu un brutto colpo. Non era quello lo scandalo a cui mirava – anzi, ci teneva così tanto da pensare già a un prequel, sempre con Guida e Carati, che avrebbe dovuto intitolarsi “Quello che volevano sapere due ragazze perbene”. Ma ha sempre detto di non averci rimesso economicamente, rientrando almeno nelle spese. Di fatto, in quei pochi giorni di permanenza in sala prima del ritiro, gli incassi erano stati deludenti. Il regista se lo spiegava così: «Gloria Guida e Lilli Carati erano molto amate da un certo pubblico, e il fatto che io le abbia fatte ammazzare, stuprare in quella maniera feroce, non so... probabilmente quando il "romoletto" è andato al bar e la "romoletta" gli ha chiesto: "Com'è Avere vent'anni?", lui le ha risposto: "Nun ci annà". Mentre di solito se il film piace si dice: "Vattel'a vede".».
Resta tanto il materiale memorabile del film, innanzitutto il cast, in cui ci sono un eccezionale Leopoldo Mastelloni truccato da Pierrot nei panni del mimo Argiras, e Ray Lovelock, che interpreta lo scontroso figlio dei fiori indifferente all’attacco sessuale di Tina-Lilli Carati. Una nota meritano poi le musiche vintage e ballabilissime composte da Franco Campanino (ma c’è pure il brano chill out “Papaya” del maestro Stelvio Cipriani). Il montaggio della versione tagliata elimina la canzone cult interpretata da Gloria Guida, “Com’è triste aver vent’anni”, testo scritto da Di Leo e musicato da Silvano Spadaccino, che doveva servire per un altro film, “Amarsi male”. Al suo posto fu inserita “To be the one your love” di Cipriani – un altro prestito, dalla commedia “La supplente va in città”.
Le due protagoniste del film hanno avuto storie personali molto diverse. La Guida in questi giorni celebrata 65enne di bellezza intatta – dopo una rinascita artistica a teatro alla fine degli anni Ottanta si è ritirata dalle scene per occuparsi della famiglia, ugualmente rimane un sex symbol plebiscitario per due generazioni. Lilli Carati aveva continuato la sua carriera nel porno, ritrovandosi poi con problemi di depressione e tossicodipendenza: arrestata per detenzione di eroina, tentò il suicidio due volte, ma nel 2011 avrebbe dovuto tornare al cinema in un giallo diretto da Luigi Pastore – invece un tumore al cervello la spense a 58 anni.
La riedizione censurata ha a lungo restituito un plot insensato nell’interezza della trama di “Avere vent’anni”. Al cinema non si poteva dire, ma quel consolatorio happy end obbligato non c’entrava niente con la ribellione degli anni arrabbiati e infelici di cui parlava Nizan. La fine splatter di Tina è un pugno nello stomaco che non ha nulla di erotico, ma la verità è che gli anni Settanta delle donne libere non sono stati una passeggiata, né un paradiso di sesso e autodeterminazione. Quella strada, faticosa e lastricata di lotte, ha avuto molte martiri - “castigate” con la violenza, lapidate dalla società, riportate all’ovile nella vergogna.
Nel frattempo tanta roba forte è passata sul grande schermo, ma il finale di questo film raggela ancora oggi. E quello che fa più paura non è il sangue, ma chiedersi perché non sembri girato quarant’anni fa.


Commenti

  1. Un film porta con sé una certa essenza; dopo aver visto qualche https://igds.onl/family/ film, si diventa un po' più chiari sulla propria vita.

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