Calibro 9

Questa mia recensione su "Calibro 9" di Toni D'Angelo, presentato fuori concorso al Torino Film Festival, è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud






Un omaggio più che un vero e proprio remake, impreziosito dal ritorno della star Barbara Bouchet, che nel cult di Ferdinando Di Leo “Milano Calibro 9” sconvolgeva i sonni degli italiani con una danza del ventre supersexy in bikini di paillettes (negli anni 70 si chiamava “go go dancing”, progenitrice della lap). In “Calibro 9” di Toni D’Angelo, proiettato ieri in streaming fuori concorso al Torino Film Festival, la Bouchet interpreta ancora l’ex spogliarellista Nelly, che nella pellicola di Di Leo tradiva Ugo Piazza consegnandolo al suo killer. La ritroviamo madre del figlio di Piazza, che si chiama Fernando (altra dedica al cineasta), avvocato milanese corrotto che finisce nel mirino di una faida di ‘ndrangheta, la terribile onorata famiglia da cui aveva tentato di emanciparsi per rinnegare la fama del padre, che considera un fallito. 
D’Angelo, figlio del cantante Nino e cinematograficamente svezzato come assistente di Abel Ferrara, ha voluto raccontare la stessa storia del primo film (apertura di una trilogia poliziottesca ispirata ai romanzi noir di Giorgio Scerbanenco) ma ambientandola ai giorni nostri. Quarantacinque anni dopo, i soldi non circolano in valigette ma sulla rete, e al posto delle banconote ci sono transazioni finanziarie illegali criptate. La ‘ndrangheta è più che mai potenza internazionale, con un nucleo calabrese ma solidi filoni nella Milano di Di Leo e poi a Francoforte, Mosca e negli Stati Uniti. L’idea della storia è che certe dinamiche criminali non sono estinte, ma semplicemente si trasformano e attingono a nuove risorse di guadagno illecito.
Marco Bocci, dopo cinque stagioni nella “Squadra antimafia” televisiva, della materia se ne intende. Si è molto divertito su questo set, dice in conferenza stampa. Il suo Fernando Piazza è un fighetto alto-borghese attratto dalla bella vita. L’ultima fiamma dell’avvocato, una giovane hacker che lui aveva tirato fuori da San Vittore, ne sfrutta i contatti per sottrarre denaro sporco destinato alla cosca Scarfò, contrapposta ai Corapi, che durante la latitanza del boss reggente si affidano a Maia (Ksenia Rappoport). Il precedente rapporto sentimentale tra Fernando e Maia basta a convincere gli Scarfò che l’avvocato sappia dove sono finiti i soldi. Inizia così una caccia all’uomo e s’inserisce anche un ambiguo commissario dal "nomen omen" Di Leo (Alessio Boni), che ha un vecchio conto in sospeso con i Corapi e vuole usare Piazza per arrestare finalmente Maia. Tra brutali regolamenti di conti pulp, inseguimenti acrobatici e carambole di automobili, la faida colpisce anche la madre di Fernando (Bouchet), gambizzata dal clan rivale. Mentre si celebra una pax mafiosa tra le due famiglie, l’intervento di Rocco Musco (Michele Placido, nel ruolo che fu di Mario Adorf), fedelissimo di papà Piazza, sembrerebbe mettere al sicuro la vita di Fernando e i soldi, gabbando tutti. Ma l’epilogo sarà diverso, in un fatale deja vu: come era già accaduto ad Ugo, l’amore per la donna sbagliata porta al disastro.
Il plot giallo-noir è quello ingarbugliato di Scerbanenco e lo sceneggiatore Gianluca Curti calca pure la mano (alla fine qualche nodo deve sciogliersi troppo frettolosamente). Ma ci sta. D’Angelo confeziona un perfetto film di genere – sin dai titoli nel maiuscolo Impact a chiassose lettere rosse tipico dei polizieschi italiani, chiara citazione a Di Leo come le immagini vintage di Barbara Bouchet e Gastone Moschin che scorrono nella sigla.
Girato in Calabria, soprattutto a Catanzaro ma anche nella provincia reggina (con il sostegno della fondazione film commission regionale e Santo Versace tra i produttori), il film ha suscitato polemiche a proposito di quel cartello stradale di Stalettì crivellato da proiettili per finzione scenica. Una scelta concordata con l’amministrazione comunale della città – mai nota per vicende di ‘ndrangheta e invece centro di importante attrazione turistica – per mostrarne il nome sul grande schermo, pur con un artificio che evoca la delinquenza. E al di là della funzionalità alla trama, il contesto del film è infatti infarcito dei soliti standard terroni. Appena ci si sposta da Milano alla Calabria, puntualmente si ripropone la classica iconografia del sud arretrato e mafioso: i ragazzini della ‘ndrangheta corrieri su vecchi motorini truccati, le donne omertose col fazzoletto in testa che preparano le conserve di pomodoro in un casale che nasconde il bunker segreto del boss. Quindi non era la ‘ndrangheta internazionale 2.0, quella che parla in italiano, pavoneggia lo status attestato dal possesso di costose modelle-escort e droghe sintetiche, veste abiti griffati? Perché, poi, la chiamano “mamma santa” in una scimmiottatura del gergo della mafia siciliana, perpetuando l’anonimato della Calabria persino nel disonorevole capitolo storico della criminalità?
Peccati veniali, ma che (senza colpa del film, ovviamente) arrivano purtroppo nel momento sbagliato per i calabresi. Curti, produttore e autore della sceneggiatura, in conferenza stampa elude il riferimento agli stereotipi rimbalzato da molte domande e si limita a ribadire il codice iperbolico dei popolari “B movies”. Giusta e logica considerazione, ma resta il fatto che il maestro Di Leo, quasi cinquant’anni fa, riusciva a fare genere senza mai scivolare sugli stereotipi. Persino parlando di ‘ndrangheta, si può.

Commenti

Post popolari in questo blog

Donne dell'anima mia