Il buco in testa


Abbiamo risposto alla violenza con altra violenza… pure la loro lo era, di un tipo diverso ma sempre violenza – dice a Maria l’ex terrorista Guido, che le ha ucciso il padre quando lei non era ancora nata. Parole sconnesse, incerte, dove vibra non il pentimento ma una scia di rabbia consunta. Sono le ataviche contraddizioni degli anni di piombo, raccontate nel film “Il buco in testa” di Antonio Capuano, presentato fuori concorso al Torino Film festival. Capuano s’ispira a un vero fatto di cronaca, l’assassinio del poliziotto Antonio Custra, colpito a morte dal proiettile sparato dall’estremista Mario Ferrandi durante una manifestazione di Autonomia Operaia a Milano, nel 1977. 
Teresa Saponangelo è Maria Serra, figlia dell’agente Mario: come avvenne realmente ad Antonia, figlia di Custra, anche nel film, dopo anni di traumi e la terapia con una psicologa, la donna decide di incontrare Guido Mandelli (Tommaso Ragno), che ha scontato la sua pena e vive con la moglie nel capoluogo lombardo. Vuole guardare negli occhi l’uomo per colpa del quale lei è cresciuta arida e vuota, senza un padre né l’amore della madre, annichilita fino alla pazzia dalla perdita del marito.
Ambientato a Torre del Greco sullo sfondo di vento e mare burrascoso, il film di Capuano è un lacerante atto d’accusa, quello di chi fu martire insensato della lotta armata. Maria dirà a Guido: “Mio padre faceva il poliziotto per avere un lavoro sicuro. Avete ucciso un proletario, era questa la vostra rivoluzione?”
La storia s’intreccia con il microcosmo di una periferia oppressa dalla criminalità – l’ombra dei boss, i codici d’onore arroganti scimmiottati dai ragazzi dei clan camorristi. L’infanzia della protagonista con i suoi luoghi diventa centrale nel plot per giungere all’epilogo necessario della risolutiva conversazione con Guido. Il dolore accumulato, imploso, è indispensabile al processo di guarigione che la donna concluderà trovandosi di fronte a un uomo verso cui scoprirà di provare soltanto pena.
Quel colpo di pistola ha condannato Maria negandole tutto, prima ancora che lei venisse al mondo. La madre non c’è mai stata, da quel giorno ha rinunciato a vivere: si strugge guardando una coppia di vicini di casa invecchiati insieme e rimpiange i tanti baci sottratti alla sua giovinezza. La figlia si porta addosso i segni di molestie infantili e consuma passioni senz’anima, si sente una pianta che non dà fiori né frutti. Il suo odore è stantio come quello emanato dalle rose appassite con cui la madre continua ad adornare la foto del giovanissimo padre – una sola, ripetuta identica nelle stanze come se la casa fosse un santuario triste, un perenne altare funebre. L’unica emozione nell’abulia sentimentale di Maria è l’ossessiva ricerca su Maps della strada dove cadde il padre, ingrandita maniacalmente per fissare nella mente ogni dettaglio.
Un film duro, doloroso, che obbliga a sfatare ogni mito celebrativo in una pagina di storia italiana non cicatrizzata. La violenza dei terroristi con lo slogan dell’uccidere uno per educarne cento è null’altro che sterile vaneggiamento, “un’esaltazione collettiva, sparare nel buio mentre una luce ti acceca”. Dopo un nostalgico delirio nel ricordo della sommossa, l’ex terrorista Guido ammette di esser diventato, sparando, semplicemente un assassino, per sempre – e lo capirono subito che la morte di un uomo non sarebbe stata l’inizio di un mondo migliore. Nella loro guerra non erano quelli i nemici. Ma era troppo tardi: il poliziotto Serra e gli altri come lui, le loro famiglie distrutte, sono stati gli unici a pagare, non è possibile tornare indietro.
C’era stato un altro bel film sullo stesso tema, “La seconda volta” di Mimmo Calopresti con Nanni Moretti e Valeria Bruni Tedeschi, ma lì i personaggi compivano un percorso opposto. Il perdono che in Calopresti era un’urgenza, in Capuano è una lenta, straziante conquista. Lì c’era espiazione, qui un crudo rendiconto dei danni cagionati a molte vite dall’estremismo politico. Soprattutto, “Il buco in testa” è impietoso nel rivelare i sepolcri imbiancati di molta ideologia. In molti personaggi l’odio è trasversale e radicato, dalla sinistra ai fascismi e nutre una visione assolutoria della violenza e del crimine.
Maria, rabbiosa e ferita per gran parte della storia, alla fine perde ogni velleità giustizialista. Arriverà all’appuntamento con il borghese Guido nella sua trasparenza oggettiva, tangibile, di donna spezzata. Pacata perché per prima ha fatto i conti con se stessa e delle sue macerie ha pietà. Non urla ma neanche accetta convenevoli: non potrà mangiare allo stesso tavolo dell’assassino di suo padre. Quel confronto le servirà a liberarsi dall’odio covato per lunghi anni (una pistola portata per vendetta resterà inutilizzata). La vediamo ripartire per Napoli stringendo la mano a Guido, serena.
La vera Maria, Antonia Custra, ha concluso i suoi giorni nella crudele coerenza di un destino segnato: è morta di cancro due anni fa. Dopo il primo incontro continuò a sentire Ferrandi e a parlargli, per lui quella donna aveva un grande cuore, nonostante tutta la sua vita aveva tentato di insegnarle a renderlo muto.

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