Kim Ki-duk, maestro di violenza, dolore e salvezza


La mia passione per il cinema Kim Ki-duk è iniziata con “L’isola”, il film che lo ha fatto conoscere al pubblico italiano e resta il più emblematico della sua opera. Poi ne ho cercato e visto quasi tutto, affrontando anche la visione underground di dvd pirata in lingua originale e sottotitoli inglesi che non si leggevano – uno dei più tosti lo vidi mentre ero incinta di mia figlia, nonostante non fosse il genere adatto a una tenera futura mamma…
“Ferro 3”, poetico e rarefatto, è il film di Kim che tutti citano nel giorno della sua morte per Covid in una situazione estrema ed ermetica, perfettamente degna delle storie surreali del regista sudcoreano. Le bellissime immagini del trittico quasi scultoreo di corpi – tra cui l’unico vero amore è proprio la persona che non esiste - si ripetono in queste ore sul web ma io, pur avendo amato questo film, rimango legata alle pellicole più crude di Kim. “Ferro 3” è il suo lavoro più occidentalizzato – molto presto il regista ha cavalcato l’onda della popolarità mainstream dosando le suggestioni asiatiche quanto necessario per entrare nel club del cinema d’autore ma nello stesso tempo rispondendo con astuzia al gradimento del grande pubblico. Di questo ho avuto prova scoprendo anni fa che tra gli ammiratori di Kim c’era una persona del tutto digiuna di cinematografia impegnata: per capirci, uno che a proposito dei film coreani da una parola ogni venti minuti potrebbe pronunciare con uguale convinzione la celebre battuta di Fantozzi sulla “Corazzata Potemkin” – eppure l’amico aveva visto tanti film di questo autore e ne diceva meraviglie.
Prima di “Ferro 3” però c’era stata “L’isola”, roba per stomaci forti e non a causa del sangue: fiumi di liquido rosso e carni smembrate straripano in Tarantino e non fanno questo effetto. La violenza di Kim non è splatter cartoonesco, è sadica. Crudeltà allo stato puro e ancor più negli altri lavori della prima parte della carriera, da “Birdcage Inn” a “La samaritana”, “Indirizzo sconosciuto”, “Wild Animals”, “La guardia costiera”. Tutto era già racchiuso nell’esordio di “Coccodrillo”: avrebbe potuto essere il racconto bohemien di due sventurati che guariscono insieme – invece no, il balordo incontra un’aspirante suicida e la salva, ma solo per farne la sua schiava sequestrandola sotto il ponte dove vive accumulando la refurtiva delle sue scorribande. Degrado, colori cupi, molta acqua che scorre, ampi spazi brulli in contrapposizione con interni angusti e squallidi. Sarà questa la cifra visiva dei primi film, dove la scenografia accentua la profonda solitudine dei personaggi. Ecco, la violenza innata e istintiva in Kim è parte integrante della solitudine, dell’incomunicabilità. Uomini e donne conoscono soltanto questo tipo di linguaggio - la sopraffazione, la forza, l’umiliazione dell’altro, l’autolesionismo. Un po’ mi fa pensare a qualcosa di diversissimo, il Rosso Malpelo di Verga cresciuto a botte e rifiuti e incapace di provare amore. Ma non andando così lontano, qui c’è per intero l’ideale catartico del dolore, insito nella cultura orientale. In Kim l’alienazione è completa perché si fonde con le contraddizioni della storia delle Coree, le cicatrici di una guerra insensata, lo smarrimento della speranza. Ci si potrebbe aiutare riconoscendosi umani e solidali, esercitando la pietà (tema e titolo di un altro bellissimo film del regista), ma i personaggi non sono in grado di farlo. Sempre ladri o prostitute, truffatori, predoni di corpi, averi e vite altrui. Intrappolati in un destino di abiezione e grettezza (come Malpelo), nella violenza sublimano la vocazione a soffrire ed essere puniti come eterni dannati. Le ferite, inflitte con cinico accanimento e senza cercare né ricavare piacere, sono accolte remissivamente – fanno male, ma elevano a una consapevolezza superiore. Gli attori di Kim, tutti bellissimi, hanno visi sereni, che la corruzione non può guastare neanche dopo le esperienze più sordide. 


Poi venne “L’isola”, con le nuove tinte pittoriche luminose (Kim era anche artista) che trasformeranno i film successivi in autentici quadri in movimento. Da “Ferro 3” in avanti la violenza e le miserie dei personaggi saranno meno espliciti (non nelle immagini, nel significato) e definitivamente spinti verso un obiettivo catartico. Sintesi di questa transizione è l’esercizio che il monaco buddista propone al discepolo bambino in “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”. Il ragazzino sevizia e uccide animali per gioco e viene picchiato dal maestro, ma si renderà conto di ciò che ha fatto soltanto davanti al cadavere immobile di una rana. L’orrore della violenza è questo, l’impossibilità di tornare indietro e riparare al danno – Kim, accusato di abusi sessuali su un’attrice e bersaglio del movimento “Me Too” forse lo sapeva bene. Ricordo come questa scena e le lacrime disperate del bambino fossero riuscite ad ammutolire una classe di ragazzi arroganti durante l’incontro con un esasperato professore di sociologia che non sapendo come placare l’uditorio era arrivato a gridare pure lui, insultando gli studenti. Anche quella era violenza - l’unica interazione che meritassero, aveva detto adirato il professore. La sua sfuriata non ebbe alcun effetto, ovviamente. A far da maestro quella mattina in una scuola calabrese di periferia, fu invece il giovane monaco di Kim.

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