Censura e autocensura, quando le canzoni danno scandalo





Questo mio articolo è stato pubblicato nell'inserto Mimì del Quotidiano del Sud - L'altra voce dell'Italia
Possibile che in una canzone le parolacce diano ancora scandalo? Nell’epoca della volgarità imperante, dove turpiloquio e offese sono codici universali di comunicazione e gli asterischi omissivi li ha usurpati il lessico di genere, le “four letter words” continuano ad essere una colpa solo nel regno della musica.
Un paradosso irrisolto da oltre mezzo secolo. Dovrebbe essere la patria delle libertà, invece è proprio questo il punto: gli artisti fanno quello che vogliono – amori, vizi e sregolatezza – e l’onnipotenza creativa suscita sotterranea invidia, quindi frenarli è una piccola vendetta. Poi, sono solo canzonette, musica leggerissima che si sente ovunque, quindi certe cose qui non si possono dire.
Gli ultimi a scoprirlo sono i Maneskin, che autocensurano “Zitti e buoni” per accedere all’Eurofestival. I follower intransigenti, già inorriditi dal trionfo sul palco nazionalpopolare di Sanremo, li hanno accusati di vendere l’anima ribelle al lucroso dio del successo mainstream. Però stavolta è una scelta, un rinnovamento culturale al contrario - un po’ triste, anche. La queen Victoria zittisce i maligni spiegando che il senso del brano non cambia e allora perché perdere un’occasione? I Maneskin hanno deciso di stare, loro per primi, zitti e buoni.
Altro che rock, ritmo diabolico che non tollera padroni. Delle emittenti britanniche che avevano defenestrato “Lucy in the Sky with Diamonds” (acronimo di LSD) i Beatles se ne infischiarono. E a proposito di diavoli geniali, ragazzi, imparate da Jim Morrison: nel 1967, invitato a cambiare un verso di “Light my Fire” dalla direzione dell’Ed Sullivan Show, prese per i fondelli tutti eseguendo la canzone esattamente com’era (e i Doors persero il contratto per sei puntate del programma).
Il rabbioso testo di Damiano e compagni era approdato indenne all’Ariston grazie alla direzione artistica di Amadeus – figlio delle radio libere - che ha sdoganato le parolacce. Ma il festival e la Rai hanno una lunga esperienza di controllo militare sugli artisti.
E’ la televisione di stato, bellezza. Con la caduta del fascismo e la chiusura dell’Eiar, che aveva proibito il jazz perché antipatriottico e obiettato pure su “Faccetta nera” (esaltazione di un’avvenenza straniera capace più delle nostrane di far perdere la testa all’uomo italico), in radio e alla tv la musica non cambiò molto. Non era la puritana America, ma noi avevamo il Vaticano e la Dc.
Censuratissimo a viale Mazzini fu Renato Carosone. Siamo nel 1955 ed è troppo allusivo in “La Pansè” quel ritornello dove il cantautore ammira un allegorico fiore e domanda “me la dai?”. Due anni dopo, nella celebre “Tu vo’ fa’ l’americano” Carosone subisce ancora le forbici sul riferimento commerciale alle Camel per le quali, in origine, il giovane esterofilo della canzone chiedeva i soldi a mammà. Non andò meglio, sempre nel 1957, a Domenico Modugno con la sua “Resta cu’mme”: le parole riferite al passato sentimentale di una donna suonavano come una rischiosa svalutazione della verginità, idea sgradita ai cattolici.
Faber, che ne disse spudoratamente più di tutti, ebbe sempre addosso gli occhi dei guardiani del pudore, che però intervennero soltanto quando in “Bocca di rosa” dubitò dell’onorabilità di sbirri e carabinieri, di cui s’insinuava che, tolta la divisa, fossero poco ligi al dovere.
Nel 1969 a bacchettare mamma Rai scende in campo l’Osservatore Romano, per imporre a Lelio Luttazzi di non citare in radio “Je t’aime… moi non plus”, sospirante estasi carnale cantata da Serge Gainsbourg e Jane Birkin, che dominava le classifiche. Il disco messo all’indice è ritirato dai negozi ma continuerà a circolare clandestinamente, come in un lussurioso film francese.
La rivoluzione sessuale degli anni Settanta non sfiora la Rai né la Chiesa romana. Le radio liberalizzate battono la strada della contestazione e la censura delle canzonette è problema secondario. In “Bella senz’anima” Riccardo Cocciante non può dire che alcune richieste amorose ardite avvengono, ebbene sì, a letto. Nel 2018 il festival di Sanremo non se ne fa ancora una ragione, vietando il brano a una concorrente minorenne del concorso Young.
Il romanticissimo Claudio Baglioni dovette edulcorare “Piccolo grande amore”, stravolgendo quel limpido racconto di adolescenziali turbamenti erotici. Restano desideri nei milioni di falò a cui il brano ha fatto da colonna sonora “la voglia di essere nudi” e quelle “mani ansiose di cose proibite” che nel testo sono scomparsi.
Lucio Battisti invece fu bandito dall’etere per “Dio mio, no”, un amplesso dove a condurre il gioco è la donna, ma non per “La canzone del sole”, dedicata a una ragazzina che sconvolge gli ormoni di un coetaneo con sguardi da chica mala.
E’ entrato nella storia, poi, il caso di “4 marzo 1943” di Lucio Dalla, in gara a Sanremo nel 1971. Il titolo, data di nascita dell’autore, è versione riveduta e corretta di “Gesùbambino”, epurato insieme a una strofa sconveniente: ecco che il protagonista anziché maledire i santi ora gioca a carte, e frequenta non criminali e prostitute ma, genericamente, “la gente del porto”.
Tra cesoie ed esilio radiofonico, negli annali è fiorita qualche leggenda metropolitana. Sul bellissimo canto di seduzione “L’importante è finire” di Cristiano Malgioglio per Mina (brano già accolto con diffidenza per i contenuti sessuali considerati espliciti), il folletto Paolo Limiti lasciò intendere un risvolto hot, poiché in genesi il verbo nel titolo sarebbe stato “venire” (ma l’autore ha smentito). E negli anni Ottanta circolava la maliziosa bufala secondo cui, in “Luna” di Gianni Togni, l’inno sui muri è alle donne ma non al buon vino… piuttosto a un’altra roba, che con l’inebriante bevanda fa rima e nei maschietti provoca diverse piacevoli sensazioni.
Le parolacce le scrisse nella Divina Commedia il sommo poeta - a Dante dire culo non faceva paura. E la censura è ufficialmente estinta anche al cinema con il decreto Franceschini che abolisce il controllo preventivo sui film (rimarrà una classificazione autoregolamentata dal settore, per tutelare la visione da parte dei minori).
Ma non c’è niente di più libero delle canzoni, un’irruenza da tenere a bada. Dopo la proliferazione del rap italiano e i testi choc di Fabri Fibra e Junior Cally, suscita tenerezza la proscrizione della cruda e nostalgica “Luci a San Siro” di Vecchioni. Perché in una canzone le parole non stanno lì a caso: sono necessarie, urlano qualcosa che se la sussurri non è uguale. Se dà fastidio occorre persino gridare più forte, per regalarla a chi, se non fosse musica, mai avrebbe il coraggio di nominarla.
Invece a dettare legge nell’arte sono ancora la morale cattolica, la politica e il mercato che ammansisce, comprandoli, pure i ribelli. Poco importa che parole d’odio brutte e vergognose siano usate senza remore da professori e sedicenti intellettuali – esempi titolati di una maleducazione colloquiale che arriva dai genitori e appesta i giovani, esacerbando un tipo antico di bullismo, il più ostico da sradicare. Oggi che la bisessualità esibita dagli artisti è una moda, i teenager combattono l’omofobia con profusione di hashtag pro Lgbt. Però giustificano come humour nero la derisione delle disabilità in meme e disgustosi sticker. Questo fa veramente schifo e dovrebbe essere censurato, partendo dagli adulti.
Se volete insultare qualcuno, la Treccani ricorda che chiamarlo stronzo è linguisticamente preciso. Certo, nella blasonata enciclopedia italiana, alla voce “donna” del vocabolario permangono capolavori di sessismo. Ma questa è un’altra storia, fatta di parolacce vere.


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