Amor che a nullo amato, la teoria di Dante tra ideale e realtà



Questo mio commento su Dante, Paolo e Francesca e l'amore vero e corrisposto è stato pubblicato sull Quotidiano del Sud - L'altra Voce dell'Italia nell'inserto culturale Mimì

Nell’anno del Sommo Poeta l’ “amor che a nullo amato amar perdona”, citazione dantesca per eccellenza, torna ad echeggiare dai media ai social, dalle dissertazioni letterarie in streaming alle aule scolastiche. Mettendoci di fronte a una dura verità: le appassionate parole che Dante fece pronunciare a Francesca da Rimini nel quinto canto dell’Inferno qualcuno le ricorda solo perché Lorenzo Jovanotti avrebbe voluto scriverle sui muri e sulle metropolitane, e prima di lui Venditti le sospirava su una donna indimenticabile. Nessuno scandalo, in fondo anche questa è appropriazione universale (e popolare) dell’arte.

Amore mio perdona, cantava l’Antonello nazionale, e sul significato del sentimento che legò Paolo e Francesca si riapre un’antica disputa. Da sempre si dibatte su cosa volesse davvero dire Dante teorizzando che chiunque sia amato a sua volta riami. Stando a come lo sperimentò Francesca, accade per forza misteriosa e ineluttabile, contagio a cui non ci si può sottrarre. Una prospettiva che farebbe la gioia di schiere di collezionisti di due di picche, compreso chi s’innamora di una fanciulla che passa per strada: non è che Dante, costretto per stilnovistica convenzione ai cerimoniali delle donne dello schermo, in realtà era un profeta del catcalling?

Migliaia di amanti traditi, abbandonati o destinatari di cocenti rifiuti, ritengono che Dante abbia affermato una clamorosa fesseria. Tanto che, nell’esegesi nei celebri versi, molti critici (proprio per togliere il Poeta dall’imbarazzante situazione e salvarlo dalle rancorose critiche di orde d’innamorati delusi) hanno ricordato come a dire qualcosa di simile era stato Andreas Capellanus, autore francese vissuto tra il 1100 e il 1200 e, almeno sulla carta, più religioso del divino Alighieri, essendo stato egli stesso un sacerdote. Nel trattato in tre tomi “De Amore”, Capellanus sosteneva infatti che “amor nil posset amori denegare”, parole che secondo lo studioso Gianfranco Contini avrebbero ispirato la terzina pronunciata da Francesca. La tesi però non regge, perché Capellanus fu bollato per le sue idee contrarie alla morale cattolica come quella, al tempo rivoluzionaria, che sanciva la superiorità dell’amore fondato sull’attrazione fisica (e possibile solo fuori dal vincolo coniugale) rispetto alle tiepide emozioni del matrimonio - e tanto gli valse il bando dell’opera da parte del vescovo di Parigi. Inoltre nel testo finale della trilogia, “De reprobatione amoris”, l’autore spiega che ogni persona amata ha il diritto di non riamare.

Troppa profana leggerezza di cuori. Il devotissimo Dante ovviamente non avrebbe mai potuto essere d’accordo, e per spazzare via anche ogni sospetto di autoritarismo patriarcale, una parafrasi molto battuta dalla critica richiama i precetti dei grandi santi. Caterina, ad esempio, convinta che “naturalmente l’anima è tratta ad amare quello da cui sé vede essere amata”. Nell’interpretazione più gradita agli intellettuali in quota clericale, la donna cede all’iniziativa amorosa altrui perché non sarebbe decoroso per lei scegliere in autonomia l’oggetto del suo desiderio.

La querelle non finisce qui. In tempi di revisionismo, la cultura di genere introduce ora la paradossale argomentazione che quella certezza dell’amore corrisposto avalli il femminicidio. Se un uomo è convinto che il suo amore debba essere ricambiato, si sentirà autorizzato ad impedire che l’amata la pensi diversamente. Con ogni mezzo, inclusa la violenza. Detto così, il cavalleresco Alighieri, colui che aveva eletto Beatrice – e con lei il mondo femminile – a veicolo di spirituale elevazione verso Dio, si trasforma addirittura in misogino odiatore delle donne. Un’accusa blasfema quanto illogica. Dante, eccelso artista dell’amore cortese, è talmente dedito a Beatrice da provare vergogna perché, in un moto genetico tutto maschile, talvolta l’occhio gli cade alle belle forme di fanciulle che ammiccano dai balconi.

Ma attenzione, l’apparenza inganna. Insieme ai colleghi Guinizelli e Cavalcanti, Dante in realtà ergeva una diga contro il caotico malcostume sessuale (non binario) dei classici latini e greci, popolato di matrone fedifraghe o etere tentatrici. Nel giambo intitolato con disprezzo “Biasimo delle donne”, Simonide paragonava le femmine a un campionario di animali metaforicamente meschini, dalla maligna scimmia, alla lurida scrofa, all’asina dai facili istinti d’accoppiamento. In confronto i sinonimi sessisti appena cassati dal dizionario Treccani sono quasi garbati. E Clodia/Lesbia aveva ridotto a uno straccio quel pover’uomo di Catullo, che pur amandola perdutamente l’additava come improba a cui non poteva ormai più voler bene ma solo, e anzi di più, concupirla. Per non dire di Saffo, che da poetessa e insegnante del tiaso aveva facoltà di esprimersi al pari degli uomini, ma di quella condizione d’artista abusò scrivendo di sussulti carnali, sapori corporei e brame affatto spirituali…

Con Dante la donna perde quella rischiosa natura disinibita e assurge a creatura di soprannaturale perfezione. Su Beatrice l’ardente e indegno innamorato non osa alzare lo sguardo, ne magnifica virtù di bellezza e anima, le promette eterna adorazione. Un’ideologia sentimentale che rimane unica nella letteratura mondiale, se Petrarca già a breve con Laura avrebbe ondeggiato tra immagini amene e sotterranei guizzi di recriminazione in cui la vedeva come una fiera, belva selvaggia che gli riservava poche carinerie. Nel Canzoniere l’amore non è più esaltazione di un cuore che amando si avvicina a Dio, ma diviene tormento, degradazione morale e follia. E se dell’estasi celestiale per gli stilnovisti avevano merito le donna angelicate, del turbamento sensuale hanno totale colpa le donne vere, fatte di sangue e carne. E’ la genesi della dicotomia tra madonne e puttane.

Tutto è più chiaro con Boccaccio, il primo che, ispirandosi a Saffo, promuove le donne a soggetti pensanti e senzienti, anche in amore. La donna venerata da Dante è un simulacro: si limita ad esistere nel suo splendore e negli atti onesti. Per l’uomo è facile amarla, non ha motivo di vessarla o ucciderla perché la sua assenza d’idee e aspirazioni impedisce ogni contrasto con lui. L’ideale bella, bionda e che dice sempre sì, insomma. Quando invece arriva Fiammetta, protagonista assoluta e in voce narrante dell’Elegia, le cose cambiano. Per la prima volta le donne vivono l’amore, non si limitano ad accoglierlo passivamente. Vestali di Fiammetta e delle ragazze del Decamerone sono le Eroine di Ovidio, impudiche autrici di lettere vibranti di passione agli uomini che le avevano lasciate. E in origine c’era stata l’ira di Didone contro il pius Enea, padre di tutti i bastardi seduttori che si dileguano da un letto focoso per obbedire a vari tipi di ragion di stato.

Ecco, una donna fuoco e fiamme la vagheggiò persino il maestro Virgilio e basterebbe questo per dichiarare sconfitto il love bombing dantesco. Ma il Poeta lo sapeva già: nel girone dei lussuriosi è Francesca e non Paolo a parlare, e pur dovendola inserire tra i dannati per il suo reato di moglie infedele, lei è l’unica peccatrice a suscitare in Dante un afflato solidale. Non poteva scriverlo esplicitamente, ma stava dalla sua parte perché entrambi conoscevano l’amore inarrestabile e incondizionato.

Resta il dilemma sulla misoginia. Ma soprattutto, oltre la dimensione poetica cavalleresca, nel privato il Sommo fu il classico maschio stronzo? La domanda sorge in quanti non dimenticano il suo status di uomo sposato ma bruciante d’amore per un’altra. A Gemma Donati Dante non dedicò mai una riga – neanche per prassi fasulla, zero proprio. Una crudele debolezza diffusa tra gli stilnovisti: Cino da Pistoia, coniugato con Margherita Lanfranco degli Ughi, poetava per Selvaggia; Guido Cavalcanti, marito di Bice degli Uberti, smaniava e consumava inchiostro per Monna Vanna.

Tradizionalmente rappresentata come una borghese cornuta, Gemma sarebbe stata per Dante una seconda scelta, una spalla su cui piangere dopo la morte di Beatrice, che rimarrà terzo incomodo fantasma in un matrimonio infelice e senza amore (a dircelo è Boccaccio in veste di biografo). Una rivincita gliela offrì il drammaturgo milanese Luigi Lunari nel divertente monologo “Moglie di poeta”, dove a raccontare il triangolo con Dante e Beatrice è lei, esuberante nell’agognato ruolo principale che oscurava la rivale. Ne esce una versione della storia argutamente parziale: un uomo borioso, freddo e scansafatiche che trascorre le giornate a idealizzare una scialba donnetta, mentre la moglie si ammazza di fatica per portare avanti casa e famiglia.

Dalla letteratura alla vita vera, alla morte del marito Gemma Donati ebbe indietro dal comune di Firenze i beni della sua dote nuziale, confiscati in seguito alla condanna a morte in contumacia di Dante.

Eppure, con quegli immortali versi il poeta incompreso voleva consacrare l’amore vero. Quello che lui provò per Beatrice e che rari fortunati sono capaci di sperimentare. Voleva dire che non basta infiammarsi per un visino dolce o un corpo sinuoso, non per ottenere un’infallibile corrispondenza. E invita a proseguire nella lettura del canto di Paolo e Francesca, dove l’arcano è spiegato senza possibilità di incomprensioni. Perché l’amore sia ricambiato, occorrono due cuori gentili: solo in questo caso, se uno dei due è più veloce ad accendersi e l’altro meno incline al colpo di fulmine, l’incontro felice è questione di tempo ma fatalmente, “ratto”, avverrà.

Non dimentichiamo però che tutto accade mentre gli amanti stanno leggendo. Quando nelle pagine del libro galeotto si evoca un bacio, la voglia che Paolo ha di Francesca si trasmette alla donna, in modo potente e misterioso: “Mi prese del costui piacer sì forte, che come vedi ancor non mi abbandona”. E se la vera magia fosse quella sprigionata dalla letteratura?

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