And Just like That, bentornate ragazze


Certe serie tv sono come presenze di famiglia. Ci affezioniamo a luoghi e personaggi, ridiamo e soffriamo insieme ai protagonisti della storia, quando se ne vanno ci mancano. Per me è stato così, in momenti diversi, soltanto con Dawson’s Creek e Sex and the City.
Era il 2004 e dopo sei lunghissime stagioni di New York, casini sentimentali, outfit spaziali e soprattutto il conforto di vedere, almeno lì, il calore di un eterno legame amicale, su SatC si abbassava il sipario. Mi sarei consolata dal lutto rivedendo nostalgicamente le repliche riprogrammate ogni anno con generosità al solito orario in notturna – l’inoltrata seconda serata zona franca del parental control, l’unica lecita ad ospitare il linguaggio trasgressivo e le confidenze esplicite di Carrie e sorelle. Poi sono arrivati i film, e ovviamente ho visto anche quelli, con l’affettuosa gioia di chi riabbraccia una persona cara che non vede da anni.
In realtà già allora qualcosa si era rotto. Proprio come accade rivedendo un amico d’infanzia quando si è adulti e nella riunione ci si trova cambiati, diversi, non più in sintonia. E’ successo, per la precisione, con il secondo film, il più forzato (nel primo c’era una larvata continuità con la serie, e le nozze di Carrie e Big erano pertinenti, così come la fuga di lui sull’altare e il bellissimo matrimonio sottotono dove la sposa, anziché l'anello, si fa infilare al piede sinistro una stupenda Manolo blu elettrico con la fibbia gioiello, iconico modello che io ho taroccato usando un vecchio paio di orecchini). All’improvviso il lusso dei super attici e i Cosmopolitan mondani avevano perso il loro fascino e a tratti mi davano persino fastidio. Sembravano stucchevoli e fuori luogo alla nuova me, non più dilettosa di aperitivi e balli ma concentrata sulle bollette, un lavoro diventato precario e figli da far crescere con la spada di Damocle dei conti in profondo rosso di fine mese. Non si poteva più restare senza soldi per l’affitto dopo aver comprato un paio di scarpe – invece Carrie viveva ancora così e vedere la sua opulenza mi piaceva sempre ma non la capivo più.
Il problema non era neanche quello. Diciamola tutta: la verità è quando amiamo una serie tv vogliamo mettere becco su ogni cosa e diventiamo peggio della mitica infermiera folle di Misery. Già all’epoca dell’ultima puntata, ricordo un commento di Alessandra Appiano, che non approvava il finale (dove ogni ragazza si “sistemava” con un uomo e vissero felici e contenti) e si chiedeva se davvero quelle donne per conquistare l’happy ending avessero bisogno di un compagno. Chissà cosa direbbe oggi Alessandra, dal suo paradiso, di “And just like that”, dove l’equilibrio legato ai sentimenti – già vacillante nelle vicende dei due film – si sgretola mostrando le nostre newyorkesi, oggi cinquantenni, anelare di nuovo a successi professionali piuttosto che placarsi, soddisfatte nella serenità amorosa. E soprattutto chissà cosa direbbe della defenestrazione di Samantha, colei che in molte situazioni di questo reboot avrebbe perculato le amiche senza diplomazia e con pungente ironia. Invece no, la bionda e incontenibile Samantha mancano all’appello, scavando una voragine nel sancta sanctorum di Sex and the City. Ok, il forfait di un attore capita. Ma il gran rifiuto di Kim Cattral è stato gestito nel modo più sbagliato, introducendo un nuovo personaggio (la splendida Nicole Ari Parker, ovvero Sarita, abile agente immobiliare pure lei di carattere spregiudicato ma frenata dallo status borghese) che mai potrà sostituire la nostra Sam e – orrore degli orrori – inscenando un feroce litigio tra lei e Carrie (specchio dell’odio reciproco tra Cattral e Bradshaw nella vita vera), per giunta a causa del vile denaro. Evento molto credibile purtroppo, avviene anche nelle migliori famiglie. Però il motore di “Sex and the City” è l’amicizia, quindi questo è ufficialmente blasfemia. Cioè, ci state dicendo che Samantha ha fatto la stronza con Carrie per roba di soldi? Siete impazziti?
A proposito di Carrie, finalmente rieccola con il braccio teso a chiamare il suo solito taxi nella sfavillante notte newyorkese. Adesso è sbarcata su Instagram e ai libri affianca i podcast. Con qualche difficoltà, perché la sua brillante spigliatezza su sesso e sentimenti non basta più e ora per fare audience deve, in un certo senso, lanciare la figa oltre l'ostacolo (sì, glielo chiedono proprio così), avventurandosi, ad esempio, a raccontare in diretta le sue esperienze di masturbazione.
Le cose cambiano, si evolvono, seguono il passo dei tempi e nella serie conquistano spazio (moltissimo) il non binary e le minoranze etniche. Come in molti avevano notato nei film, alla fine a reggere la baracca resta New York. E va benissimo, basta e avanza come motivo per vedere la serie. Il resto, si sa, è difficile che convinca tutte le teste. “Sex and the City” ci appartiene e in fondo abbiamo un po’ acquisito un diritto a lamentarci o sentirci tradite. Non temo accuse di spoiler perché la morte di Big, che avrebbe dovuto essere lo sconvolgente colpo di scena della serie, è ormai un segreto di Pulcinella. Intanto, preparate i fazzoletti perché la scena è da spezzare i cuori - davvero non potrebbe essere più crudele. Poi uno choc, oltre che un’ingiusta cattiveria a Carrie, che dopo tante peripezie, è privata dell’amore della sua vita. E almeno qui, simili drammi del fato preferiamo illuderci che non esistano. Ma siamo sicuri che in una storia come questa sia una tragedia? Cinicamente penso che la scomparsa di Big lo cristallizzi nell’istante della massima pienezza dell’amore tra lui e Carrie. Ricordiamoli felici e innamorati, al culmine della passione, esenti dai rischi calcolati di ogni coppia: il giorno dei corpi muti e della complicità che si smorza in quieta consuetudine, Carrie ha la certezza di non vederlo mai.
Tra le tante critiche, mi oppongo totalmente al violento shitstorming sull’aspetto attempato delle protagoniste - che l'altro sono bellissime da invidia. In caduta libera semmai sono i maschi, in particolare Steve: la sua bella faccia da bravo ragazzo sexy è diventata quella del nonno rinco e pure mezzo sordo. E credo che vi sconvolgerà molto di più scoprire che il piccolo Bradley copula in casa dei genitori lasciando in giro preservativi usati e che Rose è diventata una ribelle rompicoglioni che osa rifiutare l'outfit di Oscar de la Renta comprato per lei da mamma Charlotte, tale e quale a vostra figlia... 
Dio mio, è davvero passato tutto questo tempo? Charlotte è andata pesante di botulino, è vero. Al contrario, Carrie e Miranda non nascondono rughe e chiome grigie. L'ironia sugli anni è un leitmotiv della serie. Charlotte invita Miranda a fare la tinta, l'amica replica con un colpo basso: quei capelli glieli critica non per un femminile consiglio di bellezza ma perché in realtà invecchiano lei, sbugiardando la coetaneità della finta bruna con la canuta.   
Insomma, come fai sbagli, e il corale rimprovero è: la festa è finita, siete troppo vecchie. Kristin Davis ha reagito mandando affanculo paparazzi e hater. La replica di Sarah Jessica Parker però è stata da standing ovation: «Cosa dovrei fare, scomparire?»
Ecco, come sempre la mia Carrie ha colpito il bersaglio. Le donne non possono invecchiare e la vecchiaia è uno stigma di cui vergognarsi, un peso da portare addosso con rassegnata onta, se necessario da sottrarre agli sguardi. Progressi sul punto non ne abbiamo fatti, zero. Qualcuna crede ancora alla scemenza dell’appeal sessuale delle milf - che in realtà è una pezza peggiore del buco – e al revival delle signore sulla signorine che il mercato della cosmesi vuole propinarci a scopo di lucro. No. Superati i quarant’anni le donne sono etichettate come un prodotto in scadenza e devono iniziare un programma militare di creme, massaggi, dieta, tinture, trucco e impalcature varie. Vietato apparire visibilmente mature, perché altrimenti facciamo schifo. Ma non dobbiamo nemmeno esagerare con i ritocchi perché altrimenti siamo ridicole.
Se dimostri meno della tua età da una parte è un vanto (ah, gli obiettivi richiesti alle donne, quelli belli), però attenzione a non destare sospetti di chirurgia mistificata perché i franchi tiratori bullizzeranno senza pietà accusandoti di mentire: sei attraente e ha un corpo da urlo “alla tua età” soltanto perché sicuramente hai fatto qualcosa e non vuoi dirlo. Al fuoco incrociato partecipano anche tante donne, quelle che nel palio per l’approvazione maschile brandiscono la giovinezza come un trofeo da scagliare contro la rivale più bella, brillante, intelligente, di successo: sì va bene sei “ancora” strafiga e più di quanto sia mai stata io, ma tu sei vecchia, quindi sono meglio io (leggi tra le righe, “per gli uomini”).
Nessuna si salva, è finita sotto pure la potente Madonna. Una sua foto, sempre perfetta, in lingerie, ha suscitato la cafona ilarità del rapper 50 Cent. Chapeau al passaggio culminante della risposta della regina: «Una volta eri mio amico». Affondato, il collega si fa piccolo e chiede scusa (salvo poi cancellare vigliaccamente i tweet della diatriba sessista).
Quando leggo cose del genere, quando sui social vedo donne bellissime insultate perché hanno quaranta e passa anni e il refrain è che il loro tempo è passato e non devono alzare troppo la cresta – davanti a tutto questo mi viene da ringraziare Michael Patrick King e le magnifiche ragazze di SatC (sì, la parola giusta è ragazze, loro lo saranno per sempre) per essere tornate esponendosi così come sono oggi. Rifatte o naturali, ugualmente senza filtri, denudando l’età con la forza della consapevolezza: avere cinquant’anni non significa essere fenomeni da baraccone né poverette da compatire. E’ un tabù coriaceo quello che stanno tentando di abbattere, lo sappiamo bene. Impresa durissima. Ma tra le donne i primi segnali di un cambio di direzione si vedono: penso alla fantastica Frances McDormand alla notte degli Oscar, nello splendore della sua naturalezza di sessantenne; penso a Sharon Stone non strega ma fiabesca sul tappeto rosso di Cannes, sbocciata dallo sbarazzino ed esuberante abito di Dolce e Gabbana con la gonna di tulle ed enormi fiori in rilievo.
And just like that, Big muore e c'è stato il Covid, che ha offuscato New York con i suoi retaggi di fobie e riti da lockdown. Il tempo passa e non possiamo fermarlo. Non ci riuscirà il chirurgo né i filler pagati mezzo stipendio o le old pic postate ossessivamente sui profili social come memorie dal viale del tramonto per raccattare i commenti dei morti di figa su quanto eravamo belle una volta. Se smettiamo di nasconderci forse prima o poi non ci chiederanno più di farlo. Grazie, ragazze, bentornate. E grazie Carrie, anche per quella stratosferica cabina armadio dove, come me, vorresti conservare tutto e c'è un posto d'onore per le decolleté blu che io e te abbiamo uguali, anche se le tue costano un pochino di più e per loro il destino ha previsto una fine dolcissima e tragica...

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