Editori a caccia di lettrici tra stereotipi e banalità




Questo mio articolo sul target femminile del mercato editoriale è stato pubblicato nell'inserto culturale Mimì del Quotidiano del Sud L'altra Voce dell'Italia


Se c’è un posto dove le donne sono corteggiate alla perfezione è il mercato librario. Ma i principi azzurri non esistono e questa non è una bella notizia, perché l’editoria tratta il pubblico femminile come una gallina dalle uova d’oro, e, aspetto ancor più grave, lo fa alimentando gli stereotipi. Per parafrasare con qualche licenza poetica Tomasi di Lampedusa, agli editori va benissimo fingere che tutto cambi perché tutto resti come prima.
Dai romanzetti rosa a opere equivalenti mascherate da narrativa sentimentale d’autore per innalzarsi dal vituperato genere, fino ai libri tristemente settoriali (cucina, famiglia, bellezza, moda), alle donne è propinata da sempre la stessa roba, e certe ridicole variazioni sul tema sono scaltre imposture.
Le lettrici donne non deludono mai, sin dai tempi di Boccaccio, che dedicò a loro il Decamerone ideando la prima operazione pubblicitaria della letteratura italiana. La premessa era una condizione di svantaggio: nel proemio l’autore le individua destinatarie di novelle consolatorie, che avrebbero alleviato la solitudine dei giorni trascorsi in casa tra lavori domestici e languori inconfessabili. Dietro l’ammirevole empatia c’era geniale marketing. Gli uomini avevano tanti svaghi fuori dalle mura private, le donne cos’altro avrebbero potuto fare nel tempo libero, se non leggere?

Con sfacciata blasfemia le storie licenziose di Boccaccio potremmo considerarle progenitrici mal imitate di uno dei cavalli di battaglia della letteratura etichettata come femminile, il sesso. Sovrani incontrastati della materia sono gli Harmony, che non accennano a sperimentare qualcosa che si discosti dalla solita vicenda dove lui è tenebroso (ovvero bastardo) e lei sedotta e abbandonata ma alla fine lo conquista, e dopo il consueto tripudio di amplessi focosi, l’amore vero trionfa. Nel 1981 il tentativo di Mondadori di mettere un piedino nella più fresca chick-lit e innovare la collana con il frizzante marchio Harlequin fu un fallimento: gli Harmony non si toccano, rigorosamente nei secoli fedeli a se stessi, dalla cronaca dettagliata delle alcove alle copertine che ritraggono amanti sensuali come pesci lessi. Anche per solenne rispetto ai milioni di ex ragazze che su quei volumetti hanno imparato cosa accade nell’intimità.
Dopo il melodramma, l’eros è l’opzione alternativa concessa all’utenza muliebre. Da “50 sfumature di grigio” in poi, è spacciato per vessillo di liberazione, nel solco delle sublimi Dominique Aury e Almudena Grandes: ma E.L. James in più è una casalinga, cioè una donna immaginata in tuta e mollettone tra i capelli che però si rivela depositaria di bollenti fantasie tra le lenzuola. Un enorme equivoco. A partire da quell’aggettivo “disperata” associato a una figura femminile mitologica che trae ispirazione dalla famosa serie tv, dove però quelle casalinghe non erano affatto disgraziate ma belle, ricche e pure capaci di efferatezze.
Il pornosoft romanzesco è quindi un grande inganno. I libri piccanti proposti alle donne come trofeo di autodeterminazione sessuale celano canovacci quanto mai vetusti. Abbagliate dal desiderio di vivere almeno sulla carta certe emozioni celestiali, in poche se ne accorgono. E’ vero, le eroine di quelle disinibite avventure di letto se la godono al pari degli uomini, ma poi sono inesorabilmente loro quelle lasciate, tradite e costrette alla competizione con le ancelle dell’harem maschile. Persino nei casi in cui conducono il gioco seduttivo, l’obiettivo è comunque la conquista dell’uomo.
Per trovare una donna che davvero fa e si prende ciò che vuole dobbiamo ritornare tra le pagine di un libro insospettabile, “Via col vento” di Margaret Mitchell. Un’epopea ultraromantica e dunque ritenuta perfetta per il segmento delle lettrici, la cui protagonista è una donna testarda e addirittura senza scrupoli, scardinando drasticamente il topos femminile virtuoso. Rossella O’Hara, intanto, non è bella come la Vivien Leigh del film (lo si dice chiaramente nell’incipit del romanzo), e il suo ascendente sugli uomini è dovuto a una personalità fonte di magnetismo fisico. Inoltre non è gentile né prudente o saggia (tradizionali doti delle donne letterarie) e nemmeno tormentata modello Madame Bovary, ma è una persona pessima, che mente, ruba, uccide. E immaginiamo che con i suoi tre mariti, uno dei quali è l’ardente Rhett Butler, si sia divertita molto di più di Ana con il perverso Christian Grey. Per ridimensionare lo scandalo e tornare nel rassicurante alveo dei luoghi comuni, qualcuno direbbe che Rossella non è questo terribile prodigio ma soltanto una donna esasperante…

All’inizio del ‘900 l’edonista Guido da Verona, scrittore ma principalmente personaggio, sulla fama mondana fatta di lussi e trasgressioni costruì un successo di vendite sensazionale per i tempi. Alle sue lettrici non si riconosceva un livello culturale eccelso e lui stesso lo ammise omaggiandole con una “Lettera alle sartine d’Italia”. Termine rimasto negli annali del sessismo perché legato a una precisa identità femminile di lavoro umile, ed iconico in un nutrito catalogo di personaggi letterari, sempre donne sventurate a cui capitavano disgrazie di ogni tipo – le più note sono le ricamatrici Sorelle Materassi di Palazzeschi, ma se ne trovano, sospirose e diligenti, pure in D’Annunzio e Verga. Una, tremula e silenziosa, fa capolino anche nel “Libro dell’inquietudine” di Pessoa.
Emblema di un incrollabile amor patrio e della necessaria conseguente mediocrità intellettuale, le sartine per Guido da Verona furono le groupie con cui zittire i colleghi invidiosi delle sue ristampe tanto da assimilarlo con somma onta a una scrittrice non di nomea raffinata (a torto), la maestra di storie nere Carolina Invernizio.
I cuori palpitanti delle sartine sono quelli che oggi battono per autori glicemici come Massimo Bisotti e appartengono a donne di istruzione ed età variegate. Lo scrittor cortese Roberto Emanuelli può contare sull’appassionato sostegno della community “Siamo solo per pochi”, un’autentica famiglia di lettrici che gestiscono il passaparola a favore dei suoi libri. E se prima era entusiasmo letterario (quanti spiriti si agitano nell’oltretomba degli artisti, da Manzoni a Moravia, ogni volta che una bimba di Roberto dice che non ha mai letto un libro più bello?), adesso il romanziere ha battezzato così una vera e propria società, con tanto di logo e progetti commerciali.

Se qualcuno avesse ancora dubbi sui motivi per cui l’editoria non ha intenzione di liberare le donne dalla gabbia di questo ghetto commerciale, i vendutissimi libri di Emanuelli raccontano di amori intensi e drammatici, con le donne che imparano ad amare se stesse e pretendere altrettanto, sennò meglio sole. Celebrato come raro esemplare di uomo che capisce le donne, adesso però Emanuelli annuncia una nuova esigenza artistica, e il suo prossimo romanzo sarà narrato dal punto di vista maschile. Non senza precisare che, scrivendo finalmente di uomini che soffrono per amore, ribalterà lo storico destino delle femmine derelitte.
Anche il giornalista Alessandro Pellizzari vanta un robusto seguito femminile, e quanto a banalità non ha la mano leggera. In blog e libri esplora le dinamiche del triangolo marito-moglie-amante, il più vecchio del mondo ma impermeabile ai cambiamenti. Lui parteggia per le amanti, martiri affettive che ai maschi infami le perdonano tutte, e alle quali sbatte in faccia brutali verità. Non psicologia (non ne ha i titoli) ma un gigantesco muro del pianto virtuale, una terapia collettiva tra vittime che si riconoscono nelle situazioni tipizzate.

Che piaccia o no, il mercato non ci considera individui ma pedine in una scacchiera di profitto. La dura realtà è che una deprimente categoria di libri “per donne”, non immateriale ma tangibile quanto quella per ragazzi, sopravvive perché quelle lettrici esistono e fanno vendere.
Non possiamo certo eliminarle, abituarle in modo diverso sì – perché, riecco Boccaccio, il fatto che leggano è un’opportunità meravigliosa. Bisogna che in libreria trovino altro. Ma per gli editori il rischio non vale la candela, e l’unica seria reazione di segno contrario è un filone di scrittrici femministe che sin nei titoli filosofeggiano di odio verso gli uomini. Toni troppo aggressivi per convincere le pancine del Signor Distruggere – ed è proprio quello che la letteratura deve invece fare, captare la benevolenza di donne che non hanno mai sentito parlare di Simone de Beauvoir e “Memorie di una ragazza perbene”.
Una risata, forse, ci salverà. Negli anni Ottanta in America divennero in voga i manuali di buone pratiche sentimental-sessuali per signore. Libri surreali che rivelavano segreti per la tenuta dei matrimoni o insegnavano arti amatorie per far felici gli uomini. Il mercato impazzì però per un libro di Joyce Jillson, astrologa e attrice dalle fattezze di Barbie: “La vera donna non fa benzina da sola”, introvabile memorabilia, era una guida alle caratteristiche “divinamente femminili”. Divertente e ironico, il libro edito da Sperling & Kupfer ebbe anche una versione maschile, “Il vero uomo non mangia quiche” di Bruce Feirstein. Molte non hanno mai capito che era umorismo e continuano a credere nel dogma secondo cui «il limite che noi non oltrepasseremo è rappresentato dai distributori self-service. Siamo in grado di dirigere l’intera, dannata società petrolifera, ma non faremo mai benzina da sole».


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