La fiera delle illusioni


La leggenda narra che nel 1947 il film “La fiera delle illusioni” di Edmund Goulding fosse stato imboscato dai produttori, preoccupati che il protagonista Tyrone Power, fulgida star hollywoodiana, si rovinasse l’immagine con quel ruolo oscuro e brutale. A raccontarlo è Romina Power, che settant’anni dopo appare in un cammeo nel remake diretto da Guillermo Del Toro e interpretato da un Bradley Cooper campione di cinismo ed efferatezze – oltre che fascino a pacchi. 

La storia è quella dell’omonimo romanzo noir di William Lindsay Gresham “La fiera delle illusioni” (traduzione che ha sempre creato equivoci con un altro cult letterario, “La fiera delle vanità” di Thackeray), sottotitolo “ascesa e caduta di Stanton Carlisle”. Lui è un vagabondo in fuga da un misterioso dramma familiare, che si unisce al baraccone circense di Clem (Willem Defoe), dove apprende il talento del mentalismo. Sotto l’ala protettiva di Pete e Zeena (Toni Collette, splendida zingara regina dei tarocchi), Stan si impadronisce dei segreti della coppia per diventare un illusionista di successo. La sua bramosia di fama e soldi lo spinge a sperimentare lo spiritismo, coinvolgendo anche la dolce Molly (Rooney Mara), ex ragazza elettrica del luna park, di cui si è innamorato. Poi però arriva un’altra donna fatale, la dottoressa Lilith (Cate Blanchett), che non per caso porta il nome della diabolica antagonista di Eva, ed è l’unica a tenergli testa e non cadere nei suoi artifici.
Scenografie spettacolari, l’atmosfera vintage irresistibile da bottega degli orrori ed effetti speciali da brivido fanno del film di Del Toro un sontuoso kolossal psicologico sulla natura umana e la sua deriva verso la follia. Il confine tra realtà e miraggio è un impalpabile filo di fumo. Alcol, oppio e soprattutto la terribile dirompenza dei desideri conducono Stan alla perdizione e non sappiamo più neanche quanto sia davvero in malafede (un classico con i manipolatori perversi e infatti nonostante la sua anima malvagia tifiamo sempre per lui): è un mostro senza scrupoli o i suoi inganni sono piuttosto una panacea per gli animi turbati di gente non meno moralmente infima di lui? La grande verità dell’impostore mentale è che tutti muoiono dalla voglia di farti vedere i loro scheletri, quindi a nessuno viene estorto nulla. La prigionia di un totale controllo è un rischio calcolato. Sembra un antenato del victim blaming, con cui Stan si autoassolve delle sue nefandezze assurgendo a pietoso incantatore abile a dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno per lavarsi la coscienza: padri che mandano i figli a morire in guerra, sadici seduttori di fanciulle e lo stesso Carlisle, tanto accecato dal delirio di onnipotenza da torturare e uccidere. 


Anche questo è un labirinto di specchi deformanti – non è l’illusionista ad essere bravo ma le sue vittime a farglielo credere, perché senza la loro docile e consapevole sottomissione mentale, lui non sarebbe che un miserabile freak. Sullo sfondo aleggia il crudele fantasma dell’uomo bestia, il geek che nel romanzo di Gresham era citazione di una figura dell’immaginario popolare degli anni Quaranta, un uomo imbarbarito fino alla regressione in animale. Ma nessuno sfugge all’occhio di Dio e la punizione sarà implacabile - la smania d’amore non è mai un attenuante al compimento di destini raccapriccianti. Vittima e carnefice, Stanton è il satanico angelo caduto, dilaniato dalla ferita narcisistica dell’abbandono e orgogliosamente solo – perché, come dicono coloro che non si sentono amati, non ha bisogno di nessuno. Del Toro è ancora una volta cantore della diversità, ma le radici di una condizione esistenziale infelice sono nella famiglia. Dove padri e figli sono legati da catene di amore e odio che a nessun polso stringono in modo indolore

Domani saranno rese note le candidature all’Oscar e questo film potrebbe concorrere con merito in tante categorie (per Cooper sarebbe la nona nomination ed è ora di dargliela, questa statuetta; Del Toro ha già vinto con "La forma dell'acqua" e pur candidato difficilmente farà il bis). Resta in ogni caso un prodotto cinematografico perfetto, costruito (e benissimo) per sbancare i botteghini.
Tra ultraviolenza e colpi di scena da manuale, le due ore e mezzo circa di questa fiaba dark evolvono verso lo spiazzante epilogo. Il romanziere Gresham ne vide tante del genere nella vita vera, lui pure inghiottito dal vortice della disperazione umana, quell'angusta stradella degli incubi che si perde nella mente e di cui il suo racconto è allucinata metafora.

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