"Bones and all" e "Il prodigio", fame d'amore
Cosa rappresentano il cibo e il nutrimento nelle relazioni affettive? Che c’entrino moltissimo gli uni con gli altri ce lo insegna l’esperienza straziante dei disturbi alimentari. In questi giorni si parla di fame d’amore, in modo molto diverso ma affine, in due bellissimi film.
“Bones and all” di Luca Guadagnino è la storia di due adolescenti cannibali; “Il prodigio” di Sebastian Lelio con l’eccezionale Florence Pugh racconta di una ragazzina che smette di mangiare per ambire al perdono e la benedizione divina. Mi ha molto colpito un filo rosso sottile che attraversa il significato di entrambe le opere. Sia i giovani innamorati che si nutrono di carne umana che la bambina ottocentesca alimentata dalla manna celeste, sono stati feriti da un abbandono e hanno un disperato bisogno di essere amati - e questa esigenza vitale negata passa dai loro corpi, le bocche, l’ingestione di cibo o il suo rifiuto.
“Bones and all” è un film crudo, incasellato nel genere horror per le sue atmosfere cupe e di pericolo imminente, il sangue a fiumi, il pulp esplicito e soprattutto personaggi che rientrano in un immaginario di creature malefiche. Maren e Lee sono, per la società e per i loro stessi familiari, dei mostri. E l’amore non vuole mostruosità, sentenzia spietatamente la madre della ragazza, lei stessa affetta da cannibalismo e finita in ospedale psichiatrico come condanna autoinflitta, per troncare ogni contatto con il mondo e impedire a se stessa di straziare e uccidere. Il film è tratto dal nerissimo romanzo di Camille De Angelis e il titolo, tradotto in italiano con “fino all’osso”, è la terribile stella polare di questa comunità segreta, i cui componenti si riconoscono tra loro dall'odore assorbito dalla carne, fiutandosi. Mangiare interamente un corpo umano è lo stato di grazia assoluto, il massimo grado di sazietà e completezza, l’orgasmo mistico dei cannibali. Nel “Prodigio”, invece, Anna si sente piena dopo aver assunto quella che crede essere la manna divina.
Chi riesce a finire il pasto di un cadavere comprese le ossa ha raggiunto una sorta di illuminazione: conosce la sua natura, accetta il suo destino, esercita quell’aggressività virulenta che comunque non potrebbe controllare. Perché Maren e Lee sono inesorabilmente violenti. Il loro istinto è bestiale, e la fame ottunde ogni volontà, abbatte ogni remora morale. Hanno solo due alternative, la sopravvivenza a costo di sacrifici di altri esseri umani, o il suicidio.
Ma contro il raccapriccio e la paura della gente, sono anche due adolescenti che bazzicano nei supermarket alla ricerca di sigarette e ascoltano rock. Puri, innocenti, appassionati. Sono il candore dentro case putride e appestate da muffe e pareti macchiate di usura. L’approccio che gli altri coetanei conducono parlando di interessi comuni per loro è il ricordo della prima volta, che per tutti e due è stata una baby sitter azzannata mentre li teneva in braccio. E sono persino imbranati, inermi e terrorizzati di fronte all’autonomia senza limiti consegnata da adulti che hanno rinunciato allo sforzo di amarli per quello che sono.
La giovinezza dona euforie di onnipotenza e infinite possibilità, e Maren e Lee non fanno eccezione. Il loro viaggio on the road in un’America che sembra non finire mai, amplificata da una fotografia di spazi vuoti e colori chiari, è disperata fuga da una condanna già scritta. Tentano di darsi regole (non si uccide, si usano persone già morte) o almeno qualche calcolo emergenziale nella scelta delle vittime, per limitare i danni (ammazzare il bastardo, che se lo merita; o il seduttore di ragazzi che probabilmente è solo e non avrà nessuno a piangerlo). Il film si trasforma in una storia romantica teen - e a sorpresa questi cannibali, che ci aspetteremmo di vedere in evoluzioni erotiche trasgressive, di fronte al manifestarsi dell’amore sono fragili, più fratelli che amanti. Contrariamente a quello che accade nella loro catena alimentare, nel sentimento non consumano ma desiderano (eccome), e aspettano. Sognano un futuro come gli altri, con una convivenza, un lavoro, progetti di famiglia. L’amore in fondo è simile al loro anelito animalesco: se vuoi qualcuno i baci sono divoranti, la persona amata si succhia e si morde. Gli attori Taylor Russell e Timothée Chalamet sono bellissimi e, come direbbe Prevert, davvero irraggiungibili nello splendore abbagliante del loro primo amore. Anche loro si baciano contro le porte della notte, sono rifugio reciproco, protezione, fiducia incrollabile. Nell’altro, più che in se stessi – che però in questo caso è un affare grandissimo, perché ognuno non sa dove lo porterà il suo bisogno di nutrirsi, non può contare sulla sua fede di non nuocere all'amato. Il lieto fine non c’è, non sarebbe stato possibile – e a dircelo è il bagliore di crudeltà che trasforma gli occhi teneri dei due ragazzi quando si avventano sulle vittime. L’ultima scena è onirica, un sogno finalmente bello e struggente dopo tanti incubi in agguato al primo colpo di sonno. Stavolta è tutto perfetto e se l’amore non è capace di salvare dalla durezza della realtà, qui nessuno dei due avrà mai più paura.
“Il prodigio”, tratto dal libro di Emma Donoghue, è una lotta tra ignoranza e ragione, dove il cibo è strumento di sottomissione e insieme redenzione. In entrambi i film, tra l’altro, ne vediamo pochissimo: nelle scene di pranzi e cene, i piatti in tavola sono elementi di arredo di cui non si riesce a scrutare il contenuto (e in “Bones” non appare mai fast food, marca identitaria dell’alimentazione americana da strada). La giovane Anna, una delle bambini digiunanti nell’infernale Europa anglosassone dell’Ottocento, dove essere minori e soprattutto femmine, era una lenta agonia in vita, è bombardata da precetti religiosi invasati e terribili sensi di colpa. Una storia realmente accaduta: nella cornice cinematografica (e teatrale, il film è aperto e chiuso da una quinta scenica), è racchiusa un'indagine sull'oscurità delle superstizioni, a cui vennero immolate vittime soprattutto femminili. Film e libro sono anche un risarcimento di memoria a quell'immenso cimitero rimasto senza croci (sarebbe stato blasfemia) nè nomi - malati psichici, omosessuali, donne e bambini, spesso non ebbero diritto neanche alla sepoltura perché bollati come errori di natura. Una follia che fa paura più di un horror e la regia di Lelio sottolinea con atmosfere gotiche, case di campagna immerse nel buio, candele fioche e un ritmo di suspence che manda il cuore in gola mentre lo spettatore si chiede: possibile che fossero così ottusi e obnubilati, che la fede nel dogma giustificasse ogni nefandezza?
“Bones and all” è un film crudo, incasellato nel genere horror per le sue atmosfere cupe e di pericolo imminente, il sangue a fiumi, il pulp esplicito e soprattutto personaggi che rientrano in un immaginario di creature malefiche. Maren e Lee sono, per la società e per i loro stessi familiari, dei mostri. E l’amore non vuole mostruosità, sentenzia spietatamente la madre della ragazza, lei stessa affetta da cannibalismo e finita in ospedale psichiatrico come condanna autoinflitta, per troncare ogni contatto con il mondo e impedire a se stessa di straziare e uccidere. Il film è tratto dal nerissimo romanzo di Camille De Angelis e il titolo, tradotto in italiano con “fino all’osso”, è la terribile stella polare di questa comunità segreta, i cui componenti si riconoscono tra loro dall'odore assorbito dalla carne, fiutandosi. Mangiare interamente un corpo umano è lo stato di grazia assoluto, il massimo grado di sazietà e completezza, l’orgasmo mistico dei cannibali. Nel “Prodigio”, invece, Anna si sente piena dopo aver assunto quella che crede essere la manna divina.
Chi riesce a finire il pasto di un cadavere comprese le ossa ha raggiunto una sorta di illuminazione: conosce la sua natura, accetta il suo destino, esercita quell’aggressività virulenta che comunque non potrebbe controllare. Perché Maren e Lee sono inesorabilmente violenti. Il loro istinto è bestiale, e la fame ottunde ogni volontà, abbatte ogni remora morale. Hanno solo due alternative, la sopravvivenza a costo di sacrifici di altri esseri umani, o il suicidio.
Ma contro il raccapriccio e la paura della gente, sono anche due adolescenti che bazzicano nei supermarket alla ricerca di sigarette e ascoltano rock. Puri, innocenti, appassionati. Sono il candore dentro case putride e appestate da muffe e pareti macchiate di usura. L’approccio che gli altri coetanei conducono parlando di interessi comuni per loro è il ricordo della prima volta, che per tutti e due è stata una baby sitter azzannata mentre li teneva in braccio. E sono persino imbranati, inermi e terrorizzati di fronte all’autonomia senza limiti consegnata da adulti che hanno rinunciato allo sforzo di amarli per quello che sono.
La giovinezza dona euforie di onnipotenza e infinite possibilità, e Maren e Lee non fanno eccezione. Il loro viaggio on the road in un’America che sembra non finire mai, amplificata da una fotografia di spazi vuoti e colori chiari, è disperata fuga da una condanna già scritta. Tentano di darsi regole (non si uccide, si usano persone già morte) o almeno qualche calcolo emergenziale nella scelta delle vittime, per limitare i danni (ammazzare il bastardo, che se lo merita; o il seduttore di ragazzi che probabilmente è solo e non avrà nessuno a piangerlo). Il film si trasforma in una storia romantica teen - e a sorpresa questi cannibali, che ci aspetteremmo di vedere in evoluzioni erotiche trasgressive, di fronte al manifestarsi dell’amore sono fragili, più fratelli che amanti. Contrariamente a quello che accade nella loro catena alimentare, nel sentimento non consumano ma desiderano (eccome), e aspettano. Sognano un futuro come gli altri, con una convivenza, un lavoro, progetti di famiglia. L’amore in fondo è simile al loro anelito animalesco: se vuoi qualcuno i baci sono divoranti, la persona amata si succhia e si morde. Gli attori Taylor Russell e Timothée Chalamet sono bellissimi e, come direbbe Prevert, davvero irraggiungibili nello splendore abbagliante del loro primo amore. Anche loro si baciano contro le porte della notte, sono rifugio reciproco, protezione, fiducia incrollabile. Nell’altro, più che in se stessi – che però in questo caso è un affare grandissimo, perché ognuno non sa dove lo porterà il suo bisogno di nutrirsi, non può contare sulla sua fede di non nuocere all'amato. Il lieto fine non c’è, non sarebbe stato possibile – e a dircelo è il bagliore di crudeltà che trasforma gli occhi teneri dei due ragazzi quando si avventano sulle vittime. L’ultima scena è onirica, un sogno finalmente bello e struggente dopo tanti incubi in agguato al primo colpo di sonno. Stavolta è tutto perfetto e se l’amore non è capace di salvare dalla durezza della realtà, qui nessuno dei due avrà mai più paura.
“Il prodigio”, tratto dal libro di Emma Donoghue, è una lotta tra ignoranza e ragione, dove il cibo è strumento di sottomissione e insieme redenzione. In entrambi i film, tra l’altro, ne vediamo pochissimo: nelle scene di pranzi e cene, i piatti in tavola sono elementi di arredo di cui non si riesce a scrutare il contenuto (e in “Bones” non appare mai fast food, marca identitaria dell’alimentazione americana da strada). La giovane Anna, una delle bambini digiunanti nell’infernale Europa anglosassone dell’Ottocento, dove essere minori e soprattutto femmine, era una lenta agonia in vita, è bombardata da precetti religiosi invasati e terribili sensi di colpa. Una storia realmente accaduta: nella cornice cinematografica (e teatrale, il film è aperto e chiuso da una quinta scenica), è racchiusa un'indagine sull'oscurità delle superstizioni, a cui vennero immolate vittime soprattutto femminili. Film e libro sono anche un risarcimento di memoria a quell'immenso cimitero rimasto senza croci (sarebbe stato blasfemia) nè nomi - malati psichici, omosessuali, donne e bambini, spesso non ebbero diritto neanche alla sepoltura perché bollati come errori di natura. Una follia che fa paura più di un horror e la regia di Lelio sottolinea con atmosfere gotiche, case di campagna immerse nel buio, candele fioche e un ritmo di suspence che manda il cuore in gola mentre lo spettatore si chiede: possibile che fossero così ottusi e obnubilati, che la fede nel dogma giustificasse ogni nefandezza?
Anna, in quanto donna, è il male e, come la coppia di cannibali, deve espiare un marchio d’origine contaminato dal peccato. La madre, che conosce questa tara e ha già lavato la sua onta accanendosi su questa figlia oggetto di disdicevoli atti, la disprezza perché convinta che, secondo legge divina, sia giusto così. Il patriarcato, i codici di un Dio che ha designato gli uomini come unici pastori del verbo. Solo lasciandosi morire senza cibo, Anna potrà dimostrare, con il suo sacrificio, di essere degna d’amore. Quando mangia, Anna, maledetta da Dio, perpetua la perdita della sua purezza. Se rinuncerà alla vita terrena, sarà santa e monderà anche i vizi altrui, di cui è responsabile. La fotografia mozzafiato del film immerge la storia nei paesaggi selvatici e notturni dell’Irlanda, dove il cielo pesa sull’umanità in modo opprimente e senza scampo. Il giudizio di Dio o quello degli uomini, ugualmente inflessibile. La salvezza inizia dalla ribellione di due donne e dalla forza della maternità, che però qui è un parto non biologico. Insieme all’infermiera Lib, Anna si libera della pelle violata da abusi e vessazioni psicologiche, cambia nome, rinasce. E riprende a mangiare. Il cibo non è più lancinante strumento di fustigazione, ma fonte di vita, proprio come nel momento della venuta al mondo. Anna può crescere e diventare donna, sicura che sarà ugualmente amata.
ma fonte di vita
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