Niente mostri né vittime in prima pagina
Quando ero un’adolescente avevo sentito parlare del massacro del Circeo, come tutti. Sapevo che erano state uccise due ragazze dopo giorni di sevizie dentro una villa e l’idea mi terrorizzava tanto da non aver mai voluto conoscere nel dettaglio cosa fosse accaduto. Il solo pensiero di quello che avevano potuto subire due vittime totalmente alla mercé di aguzzini che le avevano sequestrate programmando di torturarle fino alla morte mi scioccava, ricordo che persino il nome di quella località di mare in provincia di Latina – nota meta di ferie estive – la associavo al delitto e mi faceva un’impressione tremenda, come se fosse ormai infestata dai fantasmi di quei corpi martoriati.
Solo molti anni dopo, quando la donna sopravvissuta morì e i
media rievocarono il suo calvario, ebbi il coraggio di cercare sul web le tante
ricostruzioni dei fatti del Circeo, le immagini, il racconto di Donatella nel
processo contro i tre criminali. Vidi il suo viso ricoperto di sangue quando
riuscì a farsi liberare dal bagagliaio dell’auto dove i sequestratori,
credendola morta, l’avevano gettata insieme al cadavere dell’amica; vidi le
foto in bianco e nero delle stanze della villa, i bagni dove le lasciarono nude
sul pavimento gelato ad aspettare i vari turni di tortura, la cucina con le
piastrelle a disegni stilizzati anni Settanta, il balcone che si affacciava
sull’orizzonte del mare.
Leggendo gli articoli di giornale e i servizi televisivi, gli assassini erano sempre mostri, e le vittime erano alternativamente ingenue e prive di mezzi intellettivi per non cadere nella trappola di Izzo e compagni, o in cerca di compagnia maschile e quindi se l’erano cercata. Da allora (di rivittimizzazione parlò apertamente Donatella Colasanti) alle ragazze stuprate ai festini di Genovese non è cambiato quasi niente. Anche se in giro ci sono orchi e killer, sono le vittime (soprattutto se donne) a dover essere prudenti, evitare le situazioni rischiose, fare mea culpa su qualche atteggiamento o modo di vestirsi e presentarsi che abbia potuto scatenare la violenza. Però, senza ipocrisia, ammettiamolo che ogni madre, pur odiando visceralmente questo tipo di discorsi, se pensa che qualcosa del genere possa accadere a sua figlia, d'istinto glielo dice di non accettare caramelle dagli sconosciuti e di rifiutare l'ultimo appuntamento richiesto da un ex furioso per chiarire.
Una dicotomia
ambigua, in apparenza equanime e rispettosa di ruoli inamovibili (i cattivi e i
buoni) ma che in realtà sputa sentenze su tutti. Un modello fisso e obbligato,
da cui non bisogna discostarli per non scatenare l’indignazione collettiva e
far sospettare che qualcuno metta in dubbio la distinzione tra mostro e
vittima.
E’ legato a questa innegabile considerazione il divieto ai
minori di 18 anni, all’epoca dell’uscita nelle sale, per il film di Stefano
Mordini “La scuola cattolica”, che in questi giorni è in programmazione su
Netflix. Si disse che la rappresentazione dei fatti, così come li aveva
raccontati nell’omonimo romanzo vincitore del premio Strega Edoardo Albinati,
studente nello stesso prestigioso istituto privato degli assassini del Circeo, offrisse
una visione troppo livellata tra carnefici e vittime. Insomma, in quel film non
c’erano bestie demoniache e poveracce massacrate, e il racconto
dell’adolescenza dei tre assassini umanizzava gli autori di quell’orribile
delitto, così come la correità della violenza attribuita all’educazione
cattolica rigida e repressiva di quel liceo.
Io ho visto il film e non ho avuto quest’impressione. La
crudeltà degli assassini emerge in modo esatto, e in nessun momento mi è
sembrato che fosse giustificata o che si provasse a comprenderla. Certamente,
film e libro non parlano del massacro del Circeo con toni pietistici o di
stucchevole moralismo. Albinati individua la genesi della violenza (e delle
varie situazioni emotivamente disfunzionali degli altri studenti della scuola
cattolica), interpretandola fuori dagli obblighi del politicamente corretto. E
il film colpisce duramente nonostante la violenza non si veda esplicitamente
(si poteva fare, Donatella Colasanti ci ha lasciato una dolorosa e
agghiacciante cronaca di quelle ore d’inferno). Colpisce per la perfetta
somiglianza tra gli attori e i veri massacratori, per la scelta di farli vedere
così come erano: freddi, istrionicamente orgogliosi della “porcheria”
(definizione di Angelo Izzo) compiuta, vacui, animati dall’odio e il mito della
ferocia e la sopraffazione.
I detrattori obiettano che far vedere tutto questo senza
filtri equivale ad esaltarlo. Mentre le ragazze seviziate e uccise restano
sullo sfondo come oggetti di sadico piacere (“pezzi di carne”, ammise Izzo). Questo
giudizio mi ha fatto riflettere su come dovrebbero avvicinarsi a un fatto
realmente accaduto – un fatto drammatico - l’arte e la cronaca. Due approcci
diversissimi, è chiaro. Però per come la vedo io, letteratura e giornalismo una
cosa in comune la hanno, ed è lo sguardo umano. Ricordo che da bambina ne
parlai in un tema, spiegando che il giornalismo televisivo, con il suo ritmo
incalzante, lo trovavo asettico, mentre un articolo scritto suscita a suscitare
in me una reazione emotiva. Non sono mai stata d’accordo con l’idea che l’autore
di un crimine aberrante non debba essere intervistato per scongiurare il
rischio che la sua versione dei fatti sia autocelebrativa o offenda la memoria
delle vittime e i loro familiari. Certamente, dipende molto da come lo si fa. E
il punto è proprio questo: far apparire la persona per come è non significa
stare dalla sua parte, esaltarlo o ridurre la portata delle sue colpe. Anche se
mentirà. Anche se tenterà una captatio benevolentiae. E persino se chi ne
scrive spiega cosa gli è successo prima, e se in qualche misura possa essere
causa della sua brutalità.
Una volta scrissi un articolo sulla morte di una persona
condannata per collusione alla mafia, un uomo che avendone la possibilità si
era sempre sottratto all’arresto e aveva vissuto in una lunga latitanza dorata
all’estero. E’ stato stroncato da un infarto ancora giovane, mentre aspettava
la nascita di un figlio. In quell’articolo riflettevo sul suo destino, a cui
non aveva potuto sfuggire come invece era riuscito a fare con la legge.
Postandolo su Facebook, un commentatore aveva definito le mie parole
“vergognose” – per poi bloccarmi ed evitare ogni mia replica sull’argomento. Perché
quello che avevo scritto era, a suo dire, vergognoso? Invece di celebrare una
sorta di giustizia divina che aveva fulminato quel delinquente punendolo per i
suoi reati, io avevo manifestato pietà per quella morte brutale.
Resto convinta in questo pensiero. Continuiamo a sbattere in
prima pagina il mostro e le vittime che se la sono cercata. Condanniamo prima e
dopo i processi. Cerchiamo colpevoli da mettere alla gogna, e meglio se li
definiamo diavoli, proteggendoci dalla paura che la cattiveria non sia opera di
entità soprannaturali ma si annidi nell’essere umano, accanto e in mezzo a noi.
Meglio se arginiamo il male con l’inadeguatezza o la subdola connivenza delle
vittime, proteggendoci dalla paura che nessuna prevenzione possa metterci al
sicuro dalla violenza.
L’umanità è l’unica cosa che ci distingue da chi infligge
male e uccide. Se la neghiamo a qualcuno, fosse anche il più orrendo dei
criminali, stiamo raccontando la storia dal suo stesso punto di vista. Stiamo
dicendo che ha ragione lui, il mostro che è dentro ciascuno di noi.
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