I monologhi di Sanremo li facciamo ogni giorno anche noi sui social



Chiara Ferragni, la più bersagliata, è ricca e famosa, ed è meglio se stia zitta. Paola Egonu è una privilegiata perché è una cittadina italiana e non è arrivata sui barconi. Chiara Francini ha parlato delle donne non madri come se fossero minus habens facendo capire che quel giudizio sociale l’ha ferita. Fatti suoi, fatti loro. 
Dall’altra parte dello schermo, gli autori della tradizionale vivisezione delle conduttrici del festival di Sanremo (è uno degli irrinunciabili piaceri del pubblico, insieme alla stroncatura delle canzoni) hanno bocciato essenzialmente questo, che le partner di Amadeus abbiano parlato di sè stesse. Sciorinando banalità o una commozione che, essendo su un palcoscenico, solleva dubbi di autenticità. La reazione unanime è che nei fatti loro poco o nulla ci importa, con l’aggravante che quelle parole sono state circonfuse da un alone di manifesto. Si tratta di donne e l’equazione è venuta facile: una donna, anche se in carriera e mediaticamente sovrana, deve dire qualcosa di femminista ma neanche va bene perché la clausola d’obbligo è quanto di meno femminista esista e potrebbe suonare come una giustificazione della sua presenza in un ruolo così prestigioso, accanto all’inamovibile conduttore uomo – lui non deve dimostrare niente, semplicemente è lì perché così va il mondo, da sempre.

Come fai, sbagli. I rischi dei discorsi impegnati sono stati aggirati con i monologhi-confessione, scritti e recitati alla buona, giocati su sentimenti comuni che mirano all’identificazione eppure costruiti attorno a concetti importanti, come il razzismo, la condizione femminile, la maternità, il bodyshaming. Restano però fatti loro (persino Chiara Ferragni, che su questo ha edificato il suo impero e grazie ai nostri clic), e se la cosa ci dà fastidio dovremmo ricordare che lo facciamo anche noi, ogni giorno sui nostri social. Chi più, chi meno, tutti pubblichiamo foto di compleanni e anniversari, mandiamo gli auguri ai genitori per le feste della mamma e del papà, mandiamo messaggi cifrati a colleghi carogne, ex tossici, rivali in amore e persino a contatti virtuali che non abbiamo mai incontrato dal vivo. Ed è una cosa che gratifica per vari motivi. E’ liberatoria, offre l’illusione di avere un pubblico che segue e interagisce, evoca un consenso irraggiungibile nella realtà, fa sentire meno soli se lo si è o se gli affetti sono assenti, gravosi, ostili. A differenza di quelli delle donne di Sanremo, i fatti nostri ci fanno così poca specie che parliamo pure degli estremi avamposti dell’intimità, di malattia e morte, offrendole insieme alle immagini di flebo, disfacimento fisico e protesi, a interlocutori ignoti. Ma non ci appare impudico anzi spesso ci va bene e quei fake sono capaci di dirci le parole che aspettiamo invano da chi dovrebbe amarci. Non è diverso dalle vecchie caselle di posta anonime, e poi dai forum in rete su argomenti così imbarazzanti che ci vuole coraggio per confidarli persino agli amici del cuore. Solo che oggi si mette la faccia, e quelli che vedono devono amarci, anche solo per questo. Altrimenti sono stronzi, e avremo un codazzo di amici pronti a difenderci e farli a pezzi.

L’idiosincrasia per le vip che sul palco di Sanremo, con gli occhi lucidi e la voce spezzata, raccontano di quando sono state bullizzate o un fidanzato le ha tradite e di come anche loro pensino qualche volte di essere fallite, è uno specchio rovesciato. Il Grande Fratello e a ruota tutti gli altri reality show, e poi le infinità opportunità di esibizionismo elargite a costo zero da Facebook e Instagram ci hanno messo sulla stessa riga dei personaggi pubblici. Solo che noi non guadagniamo cachet da capogiro, quindi non siamo tenuti a saper ballare, cantare, esibirci in qualcosa che somigli a un talento, fosse anche quello dell’immagine. 
Noi abbiamo il diritto di essere personaggi mettendo in scena l’unico nostro capitale spendibile per il miraggio del successo, gli affari nostri. Loro no. Se lo fanno disturbano, e devono anche accettare docilmente lo shitstorming, che fa parte della fama: se pubblichi qualcosa, ti esponi alle critiche quindi non lamentarti. La linea di confine tra digital creator (non si chiamano più influencer, è svalutante un po' come per i bidelli e i collaboratori scolastici) e follower è caduta, le frontiere si sono aperte: quei vip, se li amiamo, li difendiamo all'ultimo sangue quando qualcuno li attacca, dunque possiamo permetterci di essere incazzati e defolloware laddove i loro contenuti ci deludano. La loro vita dà spettacolo e deve essere sempre impeccabile e in sintonia con ogni libera opinione del globo terracqueo. Se non sanno divertirci, rappresentarci e soprattutto ispirare la nostra emulazione, che andassero a lavorare.
Per noi non vale, Facebook è un diario privato e chi non apprezza la nostra bacheca che passi oltre senza sentenziare, i cafoni li banniamo. Detta così viene da pensare che nell’era social i poveri vip in fondo facciano una vitaccia. 

Perché allora la platea continua ad emozionarsi per gravidanze, proposte di matrimonio e rotture sentimentali delle star? Le follower che sotto il vessillo della sorellanza hanno tifato per Shakira e ballato il suo dissing contro il fedifrago Piqué sono le stesse che si sono annoiate al discorsetto dell’imprenditrice digitale alla piccola Chiara stroncandola, ma stanno facendo infiniti dibattiti sulla scenetta di gelosia della Chiara adulta per il bacio del marito con il collega fluid gender. Alla fine è una questione di marketing, capire cosa vuole il target al quale ci vendiamo. Per loro è chi compra i brand o fa numeri di audience, per noi sono gli amici che con i loro like ci fanno sentire importanti. Come recita un meme virale, tutti a prendersela con i social tralasciando che la gente era scema pure prima, ma allora lo sapevano solo in famiglia.

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