Il sol dell'avvenire



Sarebbe bello se l’umanità capisse che di un luminoso “Sol dell’avvenire” abbiamo davvero bisogno tutti perché nessuno può essere felice se gli altri non lo sono. Nanni Moretti lo dice in modo emozionante, visionario e romantico nel suo nuovo film che ha scelto come titolo una delle più belle simbologie del comunismo. Il sole nascente svela il giorno in cui ingiustizie e diseguaglianze sono state eliminate da un’umanità unita, un futuro che la meravigliosa utopia di Marx e Engels indicava come strada reale da seguire per un altro mondo possibile. 
Moretti, che con questo film sarà in concorso a Cannes, parte però dal passato e la nostalgia: quel sole non è mai stato una conquista semplice e il suo alter ego, il nevrotico e pignolo regista Giovanni, è sul set per la sua ennesima opera cervellotica e coriaceamente pessimista, dove racconta la storia di un dirigente e una militante del Pci (Silvio Orlando e Barbora Bobulova) che nel 1956 invitano come ospiti della sezione romana del Porticciolo una compagnia di circensi ungheresi. Ma durante il soggiorno degli artisti, a Budapest entrano le truppe armate sovietiche e i due entrano in crisi, perché Vera, solidarizzando con i compagni ungheresi che in tv vedono la loro terra solcata dai carriarmati, mette in discussione l’aggressione dell’Urss mentre per Ennio è irrinunciabile la fedeltà al grande paese dove è nato il comunismo, ad ogni costo.

Ci ricorda qualcosa che sta accadendo qui e ora? Checché ne dicano gli antimorettiani non è un film da boomer, lo stiamo amando anche noi della generazione successiva e se lo facciamo vedere ai nostri figli sarebbe una scommessa ambiziosa ma non necessariamente perdente.
Moretti torna al suo cinema più vero, dove parla di sé senza curarsi di giudizi di egocentrismo (Giovanni a un certo punto dice che non pensa mai al pubblico che vedrà i suoi film, ma poi ammette che in fondo gli piace dire così ma non è vero) e senza nascondere una fragilità che riguarda il tempo che passa, i bilanci personali, la coerenza su politica, arte e cinema. Già virale nei trailer la scena in cui il progetto di Giovanni viene bocciato dai produttori Netflix che mimando uno spompato “puf” lo compatiscono perché quella sceneggiatura non esplode (ispirato a una storia vera, la distribuzione di "Tre piani"), il regista romano parte con l’irremovibilità di un vecchio testardo che non intende cedere sulle sue radicate idee. Soprattutto sul cinema non ci sta ad accettare il dominio del mercato, il decadimento estetico, la vacuità di linguaggio e immagine che appesta l’arte che ama da una vita intera. E’ uno che celebra come un rito sacro la visione di “Lola”, capolavoro di Jacques Demy, prima di battere un ciak d’inizio. Uno che si affanna a spiegare a un giovane collega che sta girando un film spazzatura che c’è differenza tra una brutale esecuzione con un colpo di pistola in primo piano e la lenta, angosciante, spaventosa violenza di “Breve film sull’uccidere” di Kieslowski. Ma la troupe tenuta in ostaggio per ore non vede l’ora di liberarsi di lui e all’improvviso vuole farlo anche la moglie Paola (Margherita Buy), produttrice di tutti i suoi film, che finalmente grazie alla psicoterapia ha trovato il coraggio di lasciare con cui la vita è faticosa.

Un film che ne contiene altri due, anzi tre contando anche la vicenda privata del regista. Metacinema puro, autoreferenziale senza sensi di colpa o considerazioni di opportunità. 
Chi se ne frega della politica, questo è un film sull’amore, gli contesta Barbora che alla meticolosa osservanza del copione, un credo storico di Giovanni, contrappone una gioiosa improvvisazione sul set. E lo stesso Giovanni in realtà ha nel cuore altri due film, uno ispirato al romanzo “Il nuotatore” di John Cheever, su cui fantastica riportandoci tra le piscine di “Palombella rossa” (film citato anche nel nome del circo Budavari), e uno dove si sia tante belle canzoni italiane, da Tenco a Battiato, e due giovani innamorati provano a superare le loro distanze. Lei è radiosa, lui cupo e chiuso in sè stesso per una scelta di supremazia intellettuale: guarda che se sei felice non sei melenso, sei felice e basta, le urla in faccia la ragazza dopo un litigio. E stavolta Nanni entra nella scena, e quando i ragazzi sono al cinema e sullo schermo si vede lo splendido finale della “Dolce Vita” con Mastroianni sulla spiaggia, stoppa lui che stava iniziando una disamina sulla borghesia per invitarlo a baciarla. Perché nel frattempo Giovanni ha capito che senza Paola non può stare e forse ha ancora un’opportunità per cambiare il suo punto di vista. Il film sul comunismo, e non è un processo indolore, anzi. Voleva raccontare di un partito dove l’ammissione degli iscritti era preceduta da un lungo esame di valori e stili di vita, prendendosi anche qualche licenza poetica (via la foto del dittatore Stalin, titoli di giornale dell’epoca stravolti, una creativa acqua minerale con l’immagine di Rosa Luxemburg sull’etichetta). Per spiegare ai ragazzi del set, convinti che i comunisti fossero soltanto russi, che una volta esistevano pure in Italia, ma poi quell’impegno e il legame con l’Urss, il paese che ci ha insegnato tutto quello che sapevamo sul comunismo, sarebbe diventato una gabbia ideologica insopportabile. Ennio non trova altra soluzione al suo dilemma politico che il suicidio e il film conquista i produttori coreani con il suo senso del tragico e della morte, che gli asiatici, si sa, adorano. Trovano fantastico che sia una storia sulla fine di tutto – dell’umanità, dell’amore, dell’esistenza. 
Ma adesso questo endorsement conclamato del suo pessimismo a Giovanni non piace più. Qualcosa lo aveva intuito tirando calci solitari a un pallone come un ragazzino senza amici, poi girando per Roma non più a bordo dell’iconica Vespa morettiana ma sul monopattino: quel film non è realmente sovversivo e forse la vera rivoluzione è una storia che si scrive con un enorme, impossibile “se”. Ed ecco la magia. “Il sol dell’avvenire” si trasforma in un’immensa sfilata felliniana, un 8 e ½ di Nanni Moretti dove privato e pubblico sconfinano l’uno nell’altro e fanno camminare insieme tra elefanti, trapezisti e clown i personaggi del film, compresi tanti amici e colleghi che sono lì per dire che condividono il sogno di Marx e Engels (da Corrado Augias e Chiara Valerio, già presenti in spassosi cammei, il regista polacco Jerzy Stuhr, che interpreta l’attempato fidanzato della figlia di Giovanni, a Anna Bonaiuto, Jasmine Trinca e Alba Rohrwacher, la cui sorella Alice contenderà a Moretti la Palma d’oro).

E vissero tutti felici, come accadrebbe al sorgere del sol dell’avvenire. La vera domanda di questo bellissimo film è sia soltanto un mito polveroso o se possiamo crederci ancora. Ma chi come me si è commosso vedendo quella scena (e siamo tanti) non ha dubbi. Sì, possiamo e dobbiamo.

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