Tina & Tin



La maternità non è mai stata così horror come in “Tina & Tin”, film spagnolo di Rubin Stein che era già un piccolo capolavoro di genere nella versione cortometraggio diretta dallo stesso regista. Il filone è collaudato (da “La mano sulla culla”, archetipo di una folla di tate assassine guidate da traumi di gravidanze fallite, al visionario “Madre!” di Darren Aronofsky) ma qui c’è un abbinamento particolarmente esplosivo, che lega con un filo rosso asfissiante la condizione materna e la religione, in un coacervo di sensi di colpa, obblighi sacrificali, miracoli e punizioni.
Attenzione, siamo nella cattolicissima Spagna ma il film è ambientato all’inizio degli anni Ottanta, durante la transizione democratica dal franchismo allo stato costituzionale, che spodestò l’egemonia della chiesa sancendo la completa libertà religiosa dei cittadini. Lola e Adolfo sono giovani e innamorati, ma il giorno delle nozze è funestato dall’aborto del feto che lei porta in grembo (scena cinematograficamente iconica: il sangue che macchia il candore dell’abito da sposa scioccando gli ospiti all’ingresso della chiesa). La donna entra in crisi, il marito è insofferente alla sua depressione e la convince ad adottare uno dei bambini abbandonati (a causa di deformità fisiche, menomazioni o tratti psicolabili) nell’orfanotrofio gestito da suore animate da una vivace passione cristiana, amorevolmente trasmessa ai minori. La scelta cade su Tina e Tin, fratelli albini che subito ispirano in Lola (che ha una disabilità motoria) un senso di protezione, mentre Adolfo li trova strani.

La situazione si ribalta quando i ragazzini, adottati dalla coppia, rivelano personalità ciniche e iniziano a compiere atti efferati in nome di un’assurda osservanza letterale della Bibbia: la madre si convince che siano cattivi, il padre li giustifica assolvendone le azioni come giochi innocenti da correggere nell’educazione parentale. Il messaggio biblico per Tina e Tin rappresenta una sudditanza cieca e ossessiva, ed è una trovata geniale l’innesto del televisore – oggetto sconosciuto ai gemelli – come idolo competitivo, che esercita una fascinazione tentatrice ovviamente immorale (oltre a servire nel film come mezzo narrativo per deliziosi spiragli di costume su notiziari e show dell’epoca).

Il resto è un crescendo di tensione, paura e violenza, dove l’atmosfera gotica e le tonalità cupe sono intrise del presagio del sangue, del fuoco, della luce opaca delle lame e la pungente volatilità del veleno in polvere. Tina e Tin sono vezzosi e cinguettanti ma si muovono in mezzo a moncherini, protesi e interiora di animali come esperti angeli del male: sullo schermo tante cose non le vediamo ma ce le fanno immaginare benissimo, con raccapricciante esattezza, e alla fine anche noi, sebbene ci terrorizzino, entriamo in dissonanza cognitiva insieme a Lola. Che è atea, ma si ritrova accerchiata da una fede religiosa invasata, che l’avvolge nelle sue spire di perversa manipolazione (non è forse così da millenni, guidando eccidi, guerre e follie collettive?). Ed è pur sempre una madre, il cui cuore non vuole credere alla malvagità dei bambini però è anche guidata dall’istinto di tutela del nuovo figlio che darà alla luce nonostante il precedente aborto ne avesse decretato la sterilità. Tina e Tin, predicatori in miniatura, per quella nascita gridano al miracolo e la decisione di riportarli in monastero revocando l’adozione si abbatte su Lola come una maledizione divina. L'altissima ed evanescente Milena Smit, terribile bellezza alla Giovanna d'Arco, aveva già vissuto un lutto genitoriale in “Madres paralelas” di Almodovar, dove il parto e la cura di un figlio erano benefici e la storia della Spagna intersecava quella privata delle due donne protagoniste attraverso l’eredità generazionale dei martiri della dittatura privati della dignità della sepoltura. Questa Lola è invece una madre ambigua, che soffre del ruolo accudente imposto da un modello familiare maschilista e vacilla sull’orlo di un lucido e volontario abbandono del figlio neonato (lo lascia piangere e non lo soccorre persino quando il piccolo potrebbe morire). Essendo donna, il suo è un comportamento degenere, mentre gli schemi sociali minimizzano l’aberrazione di Adolfo, padre che non vigila sulla sicurezza del bambino per guardare una partita di calcio e non è in grado di prenderlo in braccio, imponente ai suoi vagiti disperati e costretto a chiedere alla moglie di farlo.

Sulla sorte dei personaggi aleggia l’ombra della tragedia definitiva, che verrà scongiurata dalla potenza dirompente di due sensi ugualmente atavici e soprannaturali. Il divino e il materno si fondono in Lola, sublimando (guarda caso) un’egemonia femminile. Tina e non Tin è la mente delle taumaturgiche e penitenziali disposizioni bibliche che i bambini mettono in scena passando dall’autolesionismo a orrende brutalità; Lola è la superstite della mattanza celeste nella quale sarà giustiziato Alfonso. E forse era questo l’inconfessabile miracolo desiderato dalla donna con l’intercessione di Tina e Tin, per il quale è pienamente grata, tanto da ricostruire (con il rosario al collo) una nuova famiglia matriarcale insieme ai tre figli, dove ogni segno di crudeltà è immolato a un dio che senza quegli oboli si scatenerebbe in un’ira distruttiva e senza scampo. Non è blasfemia, soltanto l’unico dogma che l’uomo è riuscito a spiegarsi per sopravvivere al male. Nel film la furia del Signore si accende in tuoni e lampi di un’imminente tempesta: se pensiamo a quello che sta accadendo al pianeta, le profezie di Tina e Tin non ci sembreranno così folli.

Commenti

Post popolari in questo blog

Donne dell'anima mia